(che spiega benissimo cose complicate sull'elaborazione di Jacques Lacan)
I seminari di Lacan sembrano quel che nella musica barocca, soprattutto francese, si chiamava passacaglia, o anche ciaccona: alcuni temi si ripetono costantemente, come un basso continuo, su questi poi si innestano variazioni o inserzioni varie. In effetti, da una parte Lacan ripete ciclicamente sempre alcune cose, ma poi, in certi seminari, sviluppa d’un tratto temi del tutto nuovi, sprazzi effimeri che egli riprenderà solo raramente, o mai più.
1.1 Nel seminario XX° (Encore) Lacan ha proposto un certo trattamento della logica modale. Logica modale è quella parte della filosofia che tematizza i modi di essere delle cose: il possibile, l’impossibile, il contingente, il necessario. Però egli salta il possibile, e ci si chiede perché. Tradizionalmente, si dice che l’impossibile è ciò che non è vero in alcun mondo possibile: ad esempio “un rosso tutto bianco”, “un triangolo rotondo”, “un morto immortale”. Il contingente è qualcosa che è vero in almeno un mondo possibile, il nostro che conosciamo un po’: ad esempio “Giulio Cesare fu ucciso il 44 a.C.”, “La strada dove abito si chiama Via Dandolo”. Il necessario è ciò che è vero in tutti i mondi possibili: ad esempio “o piove o non piove”, “un uomo non è una sedia”, “2 + 3 = 5”. Il possibile è tutto ciò che sarebbe vero in qualche mondo ma non è detto che sarà vero nel nostro mondo, come ad esempio “gli esseri umani diventeranno immortali”, “nel 2013 sarà eletto un nuovo presidente della Repubblica italiano”, “ci sono universi infiniti”. In effetti, Lacan propone una ridefinizione dei modi ricorrendo ai termini “cessare”, “scriversi” e alle loro negazioni. Allora - l’impossibile è “non cessa di non scriversi” - il contingente è “cessa di non scriversi” - il necessario è “non cessa di scriversi” Come si vede, Lacan scrive i modi logici riferendosi allo scrivere. Ma come questa combinatoria avrebbe potuto trans-scrivere il possibile? Meglio lasciar stare. Comunque, Lacan non riprenderà più queste formule.
1.2 La combinatoria da lui proposta lascia una possibilità al possibile: “cessa di scriversi”. Questa sacrificherebbe però il non; a meno di non fare del possibile una semplice negazione dell’impossibile: “non [non cessa di non scriversi]”. Ma evidentemente “cessa di scriversi” non descrive il possibile… o invece sì? “Cessare di scriversi” descrive la fine di qualcosa, potremmo dire la morte. Se una vita è un’iscrizione contingente nel mondo, la morte è la sua cessazione. “Cessa” designa la fine di una contingenza. Allora, scrivere il possibile sarebbe “cessa di scriversi”, ovvero la morte? O il possibile è qualcosa che Lacan non riesce a scrivere (o non vuole scriverlo?). Forse perché è presupposto allo scrivere? Forse perché scrivere il possibile significa ammettere proprio la morte, ovvero ciò che per Freud non è ‘scritto’ nell’inconscio? Possiamo pensare che il modo del possibile sia quello che modalizza gli elementi stessi dell’algoritmo: cessare, scriversi, affermazione, negazione. Allora, i tre modi trascritti da Lacan sarebbero declinazioni del possibile, il quale si troverebbe rispetto agli altri tre modi in una posizione eccentrica, privilegiata. Nel senso che quando Lacan dice “cessa” intende “poter cessare”, e quando dice “scriversi” intende anche “potersi scrivere”. Allora, avremmo che: - il necessario è “non può cessare di scriversi”, - il contingente è “ha potuto cessare di non scriversi”, - l’impossibile è “non può cessare di non potersi scrivere”. I modi logici verrebbero cioè ripensati a partire dal possibile, il quale permetterebbe di scrivere gli altri modi senza poter essere a sua volta scritto. Il possibile sarebbe in una posizione di estimità, direbbe Lacan, l’inverso dell’intimità: renderebbe possibile la de-scrizione dei modi senza essere a sua volta de-scritto.
1.3 Ci rendiamo ben presto conto che i tre enunciati lacaniani utilizzano termini che presuppongono non solo il possibile, ma anche il necessario e il contingente. Vediamo ciascun termine. Intanto, ci si chiede perché Lacan ricorra al segno scriversi, come se il modo di essere degli enti fosse una questione di scrittura. In effetti, Lacan distingue il significante dalla lettera, ovvero, l’inconscio sarebbe qualcosa di ‘scritto’ (con o senza virgolette?). E’ a partire da testi che bisognerebbe pensare non solo l’inconscio, ma, in definitiva, il mondo stesso? In effetti, l’assimilazione del mondo a un libro è una delle tentazioni filosofiche più antiche, e ha avuto una lunga fortuna. Alla base di questa equiparazione del mondo alla scrittura c’è un presupposto teologico di fondo (come in Galileo): che Dio ha creato le cose del mondo come si scrive un libro. Troviamo anche in Lacan un privilegio della scrittura, che si riscontrava già nella sua scelta del termine ‘registri’. I tre registri sono simbolico, immaginario, reale. Perché Lacan ha scelto proprio il termine registri per denotarli? Perché questa scelta del termine registres fa di tutti e tre i registri qualcosa di simbolico. In effetti, registro – un libro dove sono scritti atti pubblici – viene dal latino regesta, atti trascritti, letteralmente ‘ripetizione di gesta’. Il riferimento alla trascrizione, alla scrittura, dà insomma a tutti e tre i registri lacaniani una stoffa simbolica, scritturale – grammatologica, direbbe Derrida. Ciò che si distingue dal simbolico – immaginario e reale – è pur sempre pensato come qualcosa di scritto o scrivibile o de-scrivibile, insomma, a partire dal simbolico. In quella fase del pensiero di Lacan (ma questa fase è mai tramontata?) il primato del simbolico rispetto agli altri registri è in-scritto, per dir così, nella stessa scelta terminologica di registri. ‘Scriversi’ è un modo di dire esistere, nel senso in cui questo termine viene inteso non solo nel linguaggio comune ma anche in filosofia? “Non cessa di non scriversi”, ad esempio, dovrebbe essere inteso come “non cessa di non esistere”? Ma non è così se intendiamo il necessario come lo intende il Circolo di Vienna, e come lo intende il libro a cui questo Circolo (promotore dell’empirismo logico) si è ispirato, il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Secondo questo trattato, la sola necessità possibile è quella matematica e logica, dato che nel mondo così come ci risulta, e nel quale viviamo, nulla è necessario e tutto è sempre e solo contingente. Ad esempio, saremmo tentati di dire che il dover ciascuno di noi morire è una necessità (ananke dicevano i Greci), ma di fatto è perfettamente concepibile un mondo in cui gli umani non morirebbero mai; diciamo che gli uomini sono mortali solo perché finora sono tutti morti, pare, il che è un dato contingente. Anche se un mondo con uomini immortali non si realizzerà mai, probabilmente, esso resta sempre possibile. Ora, per Wittgenstein le necessità sono solo logiche e matematiche perché per lui logica e matematica sono tautologie, è come dire “a è a”. Dire “piove o non piove” esprime qualcosa di necessario perché è un enunciato puramente tautologico (dire invece “piove e non piove” è una contraddizione, dice qualcosa di impossibile). Anche “2 + 3 = 5” è una tautologia perché “2 + 3” è una definizione di “5”, come dire “scapolo è un uomo non sposato”. Ma la tautologia non designa nulla di esistente, è una pura operazione di scrittura. Insomma, per Wittgenstein nulla di esistente è necessario, la necessità emerge solo attraverso la scrittura. Ora, se Lacan intende ‘necessario’ nel senso di Wittgenstein e del Circolo di Vienna, allora già “scriversi” presuppone il necessario. Lacan preferisce quindi “scriversi” a “esistere” per dare alla formulazione dei tre modi un carattere fondamentalmente necessario, ovvero di pura scrittura. Quindi, possiamo identificare il registro simbolico al necessario. In effetti, il passo iniziale di tutta la teorizzazione lacaniana – l’essere umano ha un inconscio perché parla – fa del linguaggio, del logos, e quindi della scrittura, la condizione essenziale, previa, dell’umanità. Il linguaggio va supposto a priori, è la condizione di possibilità dell’umanità e quindi anche dell’inconscio. Il presupposto di Lacan – sulla scia di Kant, Hegel, Heidegger… - è insomma trascendentalista: il quod umano – il fatto che gli esseri umani esistano, nella loro varietà – deriva da una condizione trascendentale, dall’apertura resa possibile dalla ‘caduta’ del linguaggio in noi. Questa apriorità o primarietà del linguaggio è talmente essenziale per Lacan che egli finisce col ri-scrivere o de-scrivere le modalità logiche – che riguardano i modi di essere di qualsiasi cosa – come qualcosa di linguistico: scrivere. In Lacan – sulla scia di Hegel – l’essere è logoizzato, potremmo dire. In questo senso, Lacan sembra inscriversi malgrado tutto nella tradizione idealista: i modi di essere delle cose del mondo vanno assimilati a fenomeni di scrittura. Un idealismo grammatologico.
1.4 Quanto al termine “cessare”, esso implica di per sé la contingenza: se qualcosa cessa è contingente. Anche se qualcosa inizia è contingente. Una cosa possibile non cesserà mai di essere tale: se sono possibili (pensabili) esseri umani immortali, essi resteranno sempre possibili, anche se non ce ne saranno mai. Analogamente, il necessario non cesserà mai di essere vero, qualunque cosa accada; sarà sempre vero che “2 + 3 = 5”, anche se tutto cessasse di esistere. Analogamente, un impossibile non cesserà di essere falso: non è possibile un mondo in cui “2 + 3 = 10”. La cessazione quindi implica ipso facto una dimensione di contingenza. Quando Lacan dice “il contingente è cessare di non scriversi”, in ‘cessare’ implica già la contingenza. “Cessa di non scriversi” – il contingente - significa “accadere”? In effetti, per l’empirismo logico “il mondo è tutto ciò che accade”, ovvero è sempre e solo contingente. Da notare che in tedesco accadere e cadere si dicono allo stesso modo, per cui la prima frase del Tractatus di Wittgenstein - Die Welt ist alles, was der Fall ist – si potrebbe tradurre come “il mondo è tutto ciò che cade”. Non è cosa irrilevante. Anni fa nelle scuole austriache lessero a vari bambini delle proposizioni-chiave del Tractatus e dissero loro di commentarle con dei disegni. C’era da divertirsi. Un bambino, ad esempio, illustrò la frase di cui sopra disegnando il pianeta terra da cui cadevano in giù case, leoni, automobili, alberi… Ciò che accade – il contingente – si dice che cade per influsso del pensiero atomista antico, per il quale il mondo era formato da atomi che cadevano, anche se secondo una pendenza detta clinamen? In effetti la nostra immaginazione ontologica elementare – se mi si permette questa espressione – tende a pensare ciò che esiste come qualcosa di caduto. Dal cielo? Dal nulla? Una caduta dal possibile? Potremmo dire che l’impossibile e il necessario sono ciò che non cadrà mai dal possibile. Descrivere il mondo come totalmente contingente – questa fu la mossa di Wittgenstein – implica insomma l’idea che non c’è alcuna ragione per cui il mondo sia, che il suo esserci non ha senso: il mondo cade (accade) come d’un tratto mi cade una tegola in testa. Evento senza senso. Come è noto, Lacan legherà strettamente il reale all’impossibile. Da notare che anche qui, come al solito fa Lacan, egli fa lo sgambetto al buon senso, che ci porterebbe a riferire il reale piuttosto al contingente. No, dà al reale proprio la modalità che non ci aspetteremmo mai. Quanto all’immaginario, è forte la tentazione di legarlo al modo del possibile: una fantasia non è nulla di reale, è qualcosa di possibile (certe fantasie si possono anche realizzare). Quindi, se il simbolico ha una modalità necessaria, e il reale ha una modalità impossibile, l’immaginario ha una modalità possibile. Come si vede, le ‘trascrizioni’ lacaniane dei tre modi sono circolari, quindi non sono delle definizioni. Perché una definizione sia tale, il definiens (i termini che definiscono) non può includere il definiendum (ciò che si deve definire). Ad esempio, la formula famosa “il significante rappresenta un soggetto per un altro significante” non è affatto una definizione perché includerebbe il definiendum nel definiens. La circolarità è rigettata dal pensiero logico, ma è accettabile in un modo di pensare improntato al ‘circolo ermeneutico’. Nella prospettiva di Lacan, non si trattava di definire o ri-definire i modi logici, ma di intrecciare i tre modi (e in absentia anche il possibile) in un modo che li muovesse dialetticamente, che li unisse in un nodo in cui si potesse slittare dall’uno all’altro. In sostanza, egli cercava di applicare alla logica modale quel gioco dei nodi Borromeo – tre anelli intrecciati in un modo particolare – che proprio in quel periodo stava sviluppando. Ciò che emerge allora da questo gioco di intrecci è che se il simbolico è il necessario, l’immaginario è il possibile, e il reale è l’impossibile, ciò che resta fuori è il contingente. Nessun registro registra – scrive - il contingente.
Ora, è proprio su questa assenza di registrazione del contingente che vorremmo soffermarci. O, se vogliamo, sulla pregnanza di ciò che inizia e cessa; sul quod, sul fatto che qualcosa sia, sull’existentia come dicevano i medievali. Questo scivolar via del contingente, dell’esistenziale, ci pare infatti una conseguenza cruciale dell’impostazione fondamentale di Lacan.
2. 1 Come abbiamo detto, Lacan ricostruisce tutta la psicoanalisi freudiana su presupposti che la filosofia chiama trascendentalisti. La trascendentalità (da non confondere con il trascendente) nasce con Kant quando, nella Critica della ragion pura, egli scrive che una cosa sono i fenomeni spazio-temporali, altra cosa sono lo spazio e il tempo in quanto condizioni di possibilità del mondo dei fenomeni (egli ne fa perciò delle sintesi a priori dello spirito); spazio e tempo sono aperture previe a ogni fenomenalità spazio-temporale,. Quella che oggi si chiama filosofia continentale – per distinguerla dalle filosofie anglo-americane, analitiche o positiviste – di fatto è erede delle filosofie della trascendentalità: essa parte dalla svolta kantiana e giunge fino a filosofi come Derrida e Deleuze. Anche Lacan, pur senza essere filosofo, si inserisce in questa direttrice “continentale”. La psicologia, che sin dall’inizio si inscrive in un progetto positivista, tematizza l’essere umano come oggetto di indagine positiva; invece la scommessa di Lacan è consistita nel pensare quest’essere a partire da una condizione previa che lo rende possibile come appunto essere umano: il linguaggio. In principio era il Verbo, come all’inizio del Vangelo di S. Giovanni. Il principio in Lacan non è crono-logico ma onto-logico. Quando Lacan dice che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, egli dice in realtà che il linguaggio è la condizione di possibilità dell’inconscio, è l’a priori dell’umanità nella misura in cui ciò che caratterizza l’umanità è il suo poter parlare, ergo il suo avere un inconscio. Così definirà il quid, l’essentia, dell’essere umano non come animal rationale ma come être parlant (essere parlante) o parlêtre (parlessere). Un certo pensiero, chiamato decostruzionista, ha criticato questa visione ‘logocentrica’ di Lacan. Si è fatto osservare che definire l’uomo come animal loquens appartiene alla tradizione metafisica più antica, che lo definiva come z?on logon ekhon, “il vivente che ha linguaggio”. Il presupposto lacaniano sarebbe non meno metafisico, antico e venerabile della definizione dell’essere umano come animal rationale. Insomma, Lacan sarebbe intriso di vecchia metafisica. Va detto però che Lacan considera l’essere umano una creatura del logos in termini piuttosto hegeliani: il logos in lui ha molti caratteri del Geist (spirito) hegeliano in quanto si attualizza sempre in lingue particolari (da qui la sua insistenza su lalangue, ovvero sulla lingua materna o comunque specifica ad ogni soggetto), e ogni soggetto si aggiusta come “essere parlante” rispetto a esso in modalità sempre specifiche e singolari. Devo dire che molti studiosi di Lacan tengono a dire che per Lacan il linguaggio non è mai una struttura trascendentale a priori, una condizione di possibilità dell’esperienza, una forma pura, separata dall’esperienza che ne fa un soggetto. Sottolineano il fatto che l’Altro è sempre incarnato, che non è mai una struttura puramente formale, ecc. Mi sembra però che questi autori incorrano in un fraintendimento fondamentale. In una visione trascendentalista – sia di Kant, di Hegel, di Heidegger, o di Derrida – la condizione di possibilità è sempre appunto incarnata, si dispiega in una storia, si articola nella fenomenalità. Anche per Kant lo spazio e il tempo, come forme sintetiche a priori, non sono mai isolati e separati dai fenomeni spazio-temporali, dal mondo empirico in cui siamo. Evidentemente questi autori confondono – una confusione certo di per sé sintomatica – la trascendentalità con il trascendente, quello delle teologie tradizionali. La visione di Lacan è logocentrica proprio perché implica la trascendentalità del logos, anche se si tratta di un logocentrismo che – come nella tradizione “continentale” tutta intera - cerca, a partire dal logos come condizione di possibilità dell’umanità, di ricostruire e ‘costruire’ soggettività concrete e specifiche. E qui è tutto il problema. In effetti, nella lettura lacaniana della psicoanalisi si ripercuote un problema fondamentale dell’idealismo logocentrico: i suoi rapporti difficili con la dimensione del contingente. Ovvero, con l’attualità del puro caso, con ciò che accade o cade senza che la ricostruzione o costruzione filosofica abbia nulla da dirne.
(...) Ci rendiamo ben presto conto che i tre enunciati lacaniani utilizzano termini che presuppongono non solo il possibile, ma anche il necessario e il contingente. Vediamo ciascun termine. Intanto, ci si chiede perché Lacan ricorra al segno scriversi, come se il modo di essere degli enti fosse una questione di scrittura. In effetti, Lacan distingue il significante dalla lettera, ovvero, l’inconscio sarebbe qualcosa di ‘scritto’ (con o senza virgolette?). E’ a partire da testi che bisognerebbe pensare non solo l’inconscio, ma, in definitiva, il mondo stesso? In effetti, l’assimilazione del mondo a un libro è una delle tentazioni filosofiche più antiche, e ha avuto una lunga fortuna. Alla base di questa equiparazione del mondo alla scrittura c’è un presupposto teologico di fondo (come in Galileo): che Dio ha creato le cose del mondo come si scrive un libro. Troviamo anche in Lacan un privilegio della scrittura, che si riscontrava già nella sua scelta del termine ‘registri’. I tre registri sono simbolico, immaginario, reale. Perché Lacan ha scelto proprio il termine registri per denotarli? Perché questa scelta del termine registres fa di tutti e tre i registri qualcosa di simbolico. In effetti, registro – un libro dove sono scritti atti pubblici – viene dal latino regesta, atti trascritti, letteralmente ‘ripetizione di gesta’. Il riferimento alla trascrizione, alla scrittura, dà insomma a tutti e tre i registri lacaniani una stoffa simbolica, scritturale – grammatologica, direbbe Derrida. Ciò che si distingue dal simbolico – immaginario e reale – è pur sempre pensato come qualcosa di scritto o scrivibile o de-scrivibile, insomma, a partire dal simbolico. In quella fase del pensiero di Lacan (ma questa fase è mai tramontata?) il primato del simbolico rispetto agli altri registri è in-scritto, per dir così, nella stessa scelta terminologica di registri.
‘Scriversi’ è un modo di dire esistere, nel senso in cui questo termine viene inteso non solo nel linguaggio comune ma anche in filosofia? “Non cessa di non scriversi”, ad esempio, dovrebbe essere inteso come “non cessa di non esistere”?