domenica 30 aprile 2023

Portaci lontano

 



D'ailleurs, Benvenuto

 Gratitudine per Sergio Benvenuto

(che spiega benissimo cose complicate sull'elaborazione di Jacques Lacan)


I seminari di Lacan sembrano quel che nella musica barocca, soprattutto francese, si chiamava passacaglia, o anche ciaccona: alcuni temi si ripetono costantemente, come un basso continuo, su questi poi si innestano variazioni o inserzioni varie. In effetti, da una parte Lacan ripete ciclicamente sempre alcune cose, ma poi, in certi seminari, sviluppa d’un tratto temi del tutto nuovi, sprazzi effimeri che egli riprenderà solo raramente, o mai più.

1.1
Nel seminario XX° (Encore) Lacan ha proposto un certo trattamento della logica modale. Logica modale è quella parte della filosofia che tematizza i modi di essere delle cose: il possibile, l’impossibile, il contingente, il necessario. Però egli salta il possibile, e ci si chiede perché.
Tradizionalmente, si dice che l’impossibile è ciò che non è vero in alcun mondo possibile: ad esempio “un rosso tutto bianco”, “un triangolo rotondo”, “un morto immortale”. Il contingente è qualcosa che è vero in almeno un mondo possibile, il nostro che conosciamo un po’: ad esempio “Giulio Cesare fu ucciso il 44 a.C.”, “La strada dove abito si chiama Via Dandolo”. Il necessario è ciò che è vero in tutti i mondi possibili: ad esempio “o piove o non piove”, “un uomo non è una sedia”, “2 + 3 = 5”. Il possibile è tutto ciò che sarebbe vero in qualche mondo ma non è detto che sarà vero nel nostro mondo, come ad esempio “gli esseri umani diventeranno immortali”, “nel 2013 sarà eletto un nuovo presidente della Repubblica italiano”, “ci sono universi infiniti”.
In effetti, Lacan propone una ridefinizione dei modi ricorrendo ai termini “cessare”, “scriversi” e alle loro negazioni. Allora
- l’impossibile è “non cessa di non scriversi”
- il contingente è “cessa di non scriversi”
- il necessario è “non cessa di scriversi”
Come si vede, Lacan scrive i modi logici riferendosi allo scrivere. Ma come questa combinatoria avrebbe potuto trans-scrivere il possibile? Meglio lasciar stare. Comunque, Lacan non riprenderà più queste formule.

1.2
La combinatoria da lui proposta lascia una possibilità al possibile: “cessa di scriversi”. Questa sacrificherebbe però il non; a meno di non fare del possibile una semplice negazione dell’impossibile: “non [non cessa di non scriversi]”. Ma evidentemente “cessa di scriversi” non descrive il possibile… o invece sì?
“Cessare di scriversi” descrive la fine di qualcosa, potremmo dire la morte. Se una vita è un’iscrizione contingente nel mondo, la morte è la sua cessazione. “Cessa” designa la fine di una contingenza. Allora, scrivere il possibile sarebbe “cessa di scriversi”, ovvero la morte? O il possibile è qualcosa che Lacan non riesce a scrivere (o non vuole scriverlo?). Forse perché è presupposto allo scrivere? Forse perché scrivere il possibile significa ammettere proprio la morte, ovvero ciò che per Freud non è ‘scritto’ nell’inconscio?
Possiamo pensare che il modo del possibile sia quello che modalizza gli elementi stessi dell’algoritmo: cessare, scriversi, affermazione, negazione. Allora, i tre modi trascritti da Lacan sarebbero declinazioni del possibile, il quale si troverebbe rispetto agli altri tre modi in una posizione eccentrica, privilegiata. Nel senso che quando Lacan dice “cessa” intende “poter cessare”, e quando dice “scriversi” intende anche “potersi scrivere”. Allora, avremmo che:
- il necessario è “non può cessare di scriversi”,
- il contingente è “ha potuto cessare di non scriversi”,
- l’impossibile è “non può cessare di non potersi scrivere”.
I modi logici verrebbero cioè ripensati a partire dal possibile, il quale permetterebbe di scrivere gli altri modi senza poter essere a sua volta scritto. Il possibile sarebbe in una posizione di estimità, direbbe Lacan, l’inverso dell’intimità: renderebbe possibile la de-scrizione dei modi senza essere a sua volta de-scritto.

1.3
Ci rendiamo ben presto conto che i tre enunciati lacaniani utilizzano termini che presuppongono non solo il possibile, ma anche il necessario e il contingente. Vediamo ciascun termine.
Intanto, ci si chiede perché Lacan ricorra al segno scriversi, come se il modo di essere degli enti fosse una questione di scrittura. In effetti, Lacan distingue il significante dalla lettera, ovvero, l’inconscio sarebbe qualcosa di ‘scritto’ (con o senza virgolette?). E’ a partire da testi che bisognerebbe pensare non solo l’inconscio, ma, in definitiva, il mondo stesso? In effetti, l’assimilazione del mondo a un libro è una delle tentazioni filosofiche più antiche, e ha avuto una lunga fortuna. Alla base di questa equiparazione del mondo alla scrittura c’è un presupposto teologico di fondo (come in Galileo): che Dio ha creato le cose del mondo come si scrive un libro. Troviamo anche in Lacan un privilegio della scrittura, che si riscontrava già nella sua scelta del termine ‘registri’.
I tre registri sono simbolico, immaginario, reale. Perché Lacan ha scelto proprio il termine registri per denotarli? Perché questa scelta del termine registres fa di tutti e tre i registri qualcosa di simbolico. In effetti, registro – un libro dove sono scritti atti pubblici – viene dal latino regesta, atti trascritti, letteralmente ‘ripetizione di gesta’. Il riferimento alla trascrizione, alla scrittura, dà insomma a tutti e tre i registri lacaniani una stoffa simbolica, scritturale – grammatologica, direbbe Derrida. Ciò che si distingue dal simbolico – immaginario e reale – è pur sempre pensato come qualcosa di scritto o scrivibile o de-scrivibile, insomma, a partire dal simbolico. In quella fase del pensiero di Lacan (ma questa fase è mai tramontata?) il primato del simbolico rispetto agli altri registri è in-scritto, per dir così, nella stessa scelta terminologica di registri.
‘Scriversi’ è un modo di dire esistere, nel senso in cui questo termine viene inteso non solo nel linguaggio comune ma anche in filosofia? “Non cessa di non scriversi”, ad esempio, dovrebbe essere inteso come “non cessa di non esistere”? Ma non è così se intendiamo il necessario come lo intende il Circolo di Vienna, e come lo intende il libro a cui questo Circolo (promotore dell’empirismo logico) si è ispirato, il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Secondo questo trattato, la sola necessità possibile è quella matematica e logica, dato che nel mondo così come ci risulta, e nel quale viviamo, nulla è necessario e tutto è sempre e solo contingente. Ad esempio, saremmo tentati di dire che il dover ciascuno di noi morire è una necessità (ananke dicevano i Greci), ma di fatto è perfettamente concepibile un mondo in cui gli umani non morirebbero mai; diciamo che gli uomini sono mortali solo perché finora sono tutti morti, pare, il che è un dato contingente. Anche se un mondo con uomini immortali non si realizzerà mai, probabilmente, esso resta sempre possibile. Ora, per Wittgenstein le necessità sono solo logiche e matematiche perché per lui logica e matematica sono tautologie, è come dire “a è a”. Dire “piove o non piove” esprime qualcosa di necessario perché è un enunciato puramente tautologico (dire invece “piove e non piove” è una contraddizione, dice qualcosa di impossibile). Anche “2 + 3 = 5” è una tautologia perché “2 + 3” è una definizione di “5”, come dire “scapolo è un uomo non sposato”. Ma la tautologia non designa nulla di esistente, è una pura operazione di scrittura. Insomma, per Wittgenstein nulla di esistente è necessario, la necessità emerge solo attraverso la scrittura. Ora, se Lacan intende ‘necessario’ nel senso di Wittgenstein e del Circolo di Vienna, allora già “scriversi” presuppone il necessario.
Lacan preferisce quindi “scriversi” a “esistere” per dare alla formulazione dei tre modi un carattere fondamentalmente necessario, ovvero di pura scrittura. Quindi, possiamo identificare il registro simbolico al necessario.
In effetti, il passo iniziale di tutta la teorizzazione lacaniana – l’essere umano ha un inconscio perché parla – fa del linguaggio, del logos, e quindi della scrittura, la condizione essenziale, previa, dell’umanità. Il linguaggio va supposto a priori, è la condizione di possibilità dell’umanità e quindi anche dell’inconscio. Il presupposto di Lacan – sulla scia di Kant, Hegel, Heidegger… - è insomma trascendentalista: il quod umano – il fatto che gli esseri umani esistano, nella loro varietà – deriva da una condizione trascendentale, dall’apertura resa possibile dalla ‘caduta’ del linguaggio in noi. Questa apriorità o primarietà del linguaggio è talmente essenziale per Lacan che egli finisce col ri-scrivere o de-scrivere le modalità logiche – che riguardano i modi di essere di qualsiasi cosa – come qualcosa di linguistico: scrivere. In Lacan – sulla scia di Hegel – l’essere è logoizzato, potremmo dire. In questo senso, Lacan sembra inscriversi malgrado tutto nella tradizione idealista: i modi di essere delle cose del mondo vanno assimilati a fenomeni di scrittura. Un idealismo grammatologico.

1.4
Quanto al termine “cessare”, esso implica di per sé la contingenza: se qualcosa cessa è contingente. Anche se qualcosa inizia è contingente. Una cosa possibile non cesserà mai di essere tale: se sono possibili (pensabili) esseri umani immortali, essi resteranno sempre possibili, anche se non ce ne saranno mai. Analogamente, il necessario non cesserà mai di essere vero, qualunque cosa accada; sarà sempre vero che “2 + 3 = 5”, anche se tutto cessasse di esistere. Analogamente, un impossibile non cesserà di essere falso: non è possibile un mondo in cui “2 + 3 = 10”. La cessazione quindi implica ipso facto una dimensione di contingenza. Quando Lacan dice “il contingente è cessare di non scriversi”, in ‘cessare’ implica già la contingenza.
“Cessa di non scriversi” – il contingente - significa “accadere”? In effetti, per l’empirismo logico “il mondo è tutto ciò che accade”, ovvero è sempre e solo contingente. Da notare che in tedesco accadere e cadere si dicono allo stesso modo, per cui la prima frase del Tractatus di Wittgenstein - Die Welt ist alles, was der Fall ist – si potrebbe tradurre come “il mondo è tutto ciò che cade”. Non è cosa irrilevante. Anni fa nelle scuole austriache lessero a vari bambini delle proposizioni-chiave del Tractatus e dissero loro di commentarle con dei disegni. C’era da divertirsi. Un bambino, ad esempio, illustrò la frase di cui sopra disegnando il pianeta terra da cui cadevano in giù case, leoni, automobili, alberi…
Ciò che accade – il contingente – si dice che cade per influsso del pensiero atomista antico, per il quale il mondo era formato da atomi che cadevano, anche se secondo una pendenza detta clinamen? In effetti la nostra immaginazione ontologica elementare – se mi si permette questa espressione – tende a pensare ciò che esiste come qualcosa di caduto. Dal cielo? Dal nulla? Una caduta dal possibile? Potremmo dire che l’impossibile e il necessario sono ciò che non cadrà mai dal possibile. Descrivere il mondo come totalmente contingente – questa fu la mossa di Wittgenstein – implica insomma l’idea che non c’è alcuna ragione per cui il mondo sia, che il suo esserci non ha senso: il mondo cade (accade) come d’un tratto mi cade una tegola in testa. Evento senza senso.
Come è noto, Lacan legherà strettamente il reale all’impossibile. Da notare che anche qui, come al solito fa Lacan, egli fa lo sgambetto al buon senso, che ci porterebbe a riferire il reale piuttosto al contingente. No, dà al reale proprio la modalità che non ci aspetteremmo mai.
Quanto all’immaginario, è forte la tentazione di legarlo al modo del possibile: una fantasia non è nulla di reale, è qualcosa di possibile (certe fantasie si possono anche realizzare). Quindi, se il simbolico ha una modalità necessaria, e il reale ha una modalità impossibile, l’immaginario ha una modalità possibile.
Come si vede, le ‘trascrizioni’ lacaniane dei tre modi sono circolari, quindi non sono delle definizioni. Perché una definizione sia tale, il definiens (i termini che definiscono) non può includere il definiendum (ciò che si deve definire). Ad esempio, la formula famosa “il significante rappresenta un soggetto per un altro significante” non è affatto una definizione perché includerebbe il definiendum nel definiens. La circolarità è rigettata dal pensiero logico, ma è accettabile in un modo di pensare improntato al ‘circolo ermeneutico’. Nella prospettiva di Lacan, non si trattava di definire o ri-definire i modi logici, ma di intrecciare i tre modi (e in absentia anche il possibile) in un modo che li muovesse dialetticamente, che li unisse in un nodo in cui si potesse slittare dall’uno all’altro. In sostanza, egli cercava di applicare alla logica modale quel gioco dei nodi Borromeo – tre anelli intrecciati in un modo particolare – che proprio in quel periodo stava sviluppando.
Ciò che emerge allora da questo gioco di intrecci è che se il simbolico è il necessario, l’immaginario è il possibile, e il reale è l’impossibile, ciò che resta fuori è il contingente. Nessun registro registra – scrive - il contingente.

Ora, è proprio su questa assenza di registrazione del contingente che vorremmo soffermarci. O, se vogliamo, sulla pregnanza di ciò che inizia e cessa; sul quod, sul fatto che qualcosa sia, sull’existentia come dicevano i medievali. Questo scivolar via del contingente, dell’esistenziale, ci pare infatti una conseguenza cruciale dell’impostazione fondamentale di Lacan.

2. 1
Come abbiamo detto, Lacan ricostruisce tutta la psicoanalisi freudiana su presupposti che la filosofia chiama trascendentalisti. La trascendentalità (da non confondere con il trascendente) nasce con Kant quando, nella Critica della ragion pura, egli scrive che una cosa sono i fenomeni spazio-temporali, altra cosa sono lo spazio e il tempo in quanto condizioni di possibilità del mondo dei fenomeni (egli ne fa perciò delle sintesi a priori dello spirito); spazio e tempo sono aperture previe a ogni fenomenalità spazio-temporale,. Quella che oggi si chiama filosofia continentale – per distinguerla dalle filosofie anglo-americane, analitiche o positiviste – di fatto è erede delle filosofie della trascendentalità: essa parte dalla svolta kantiana e giunge fino a filosofi come Derrida e Deleuze. Anche Lacan, pur senza essere filosofo, si inserisce in questa direttrice “continentale”. La psicologia, che sin dall’inizio si inscrive in un progetto positivista, tematizza l’essere umano come oggetto di indagine positiva; invece la scommessa di Lacan è consistita nel pensare quest’essere a partire da una condizione previa che lo rende possibile come appunto essere umano: il linguaggio. In principio era il Verbo, come all’inizio del Vangelo di S. Giovanni. Il principio in Lacan non è crono-logico ma onto-logico. Quando Lacan dice che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, egli dice in realtà che il linguaggio è la condizione di possibilità dell’inconscio, è l’a priori dell’umanità nella misura in cui ciò che caratterizza l’umanità è il suo poter parlare, ergo il suo avere un inconscio. Così definirà il quid, l’essentia, dell’essere umano non come animal rationale ma come être parlant (essere parlante) o parlêtre (parlessere).
Un certo pensiero, chiamato decostruzionista, ha criticato questa visione ‘logocentrica’ di Lacan. Si è fatto osservare che definire l’uomo come animal loquens appartiene alla tradizione metafisica più antica, che lo definiva come z?on logon ekhon, “il vivente che ha linguaggio”. Il presupposto lacaniano sarebbe non meno metafisico, antico e venerabile della definizione dell’essere umano come animal rationale. Insomma, Lacan sarebbe intriso di vecchia metafisica. Va detto però che Lacan considera l’essere umano una creatura del logos in termini piuttosto hegeliani: il logos in lui ha molti caratteri del Geist (spirito) hegeliano in quanto si attualizza sempre in lingue particolari (da qui la sua insistenza su lalangue, ovvero sulla lingua materna o comunque specifica ad ogni soggetto), e ogni soggetto si aggiusta come “essere parlante” rispetto a esso in modalità sempre specifiche e singolari.
Devo dire che molti studiosi di Lacan tengono a dire che per Lacan il linguaggio non è mai una struttura trascendentale a priori, una condizione di possibilità dell’esperienza, una forma pura, separata dall’esperienza che ne fa un soggetto. Sottolineano il fatto che l’Altro è sempre incarnato, che non è mai una struttura puramente formale, ecc. Mi sembra però che questi autori incorrano in un fraintendimento fondamentale. In una visione trascendentalista – sia di Kant, di Hegel, di Heidegger, o di Derrida – la condizione di possibilità è sempre appunto incarnata, si dispiega in una storia, si articola nella fenomenalità. Anche per Kant lo spazio e il tempo, come forme sintetiche a priori, non sono mai isolati e separati dai fenomeni spazio-temporali, dal mondo empirico in cui siamo. Evidentemente questi autori confondono – una confusione certo di per sé sintomatica – la trascendentalità con il trascendente, quello delle teologie tradizionali. La visione di Lacan è logocentrica proprio perché implica la trascendentalità del logos, anche se si tratta di un logocentrismo che – come nella tradizione “continentale” tutta intera - cerca, a partire dal logos come condizione di possibilità dell’umanità, di ricostruire e ‘costruire’ soggettività concrete e specifiche. E qui è tutto il problema.
In effetti, nella lettura lacaniana della psicoanalisi si ripercuote un problema fondamentale dell’idealismo logocentrico: i suoi rapporti difficili con la dimensione del contingente. Ovvero, con l’attualità del puro caso, con ciò che accade o cade senza che la ricostruzione o costruzione filosofica abbia nulla da dirne.

(...)

L’impossibile contingente. Lacan è idealista?/pm/indther/lacan/benvenuto.htm



(...) Ci rendiamo ben presto conto che i tre enunciati lacaniani utilizzano termini che presuppongono non solo il possibile, ma anche il necessario e il contingente. Vediamo ciascun termine.
Intanto, ci si chiede perché Lacan ricorra al segno scriversi, come se il modo di essere degli enti fosse una questione di scrittura. In effetti, Lacan distingue il significante dalla lettera, ovvero, l’inconscio sarebbe qualcosa di ‘scritto’ (con o senza virgolette?). E’ a partire da testi che bisognerebbe pensare non solo l’inconscio, ma, in definitiva, il mondo stesso? In effetti, l’assimilazione del mondo a un libro è una delle tentazioni filosofiche più antiche, e ha avuto una lunga fortuna. Alla base di questa equiparazione del mondo alla scrittura c’è un presupposto teologico di fondo (come in Galileo): che Dio ha creato le cose del mondo come si scrive un libro. Troviamo anche in Lacan un privilegio della scrittura, che si riscontrava già nella sua scelta del termine ‘registri’.
I tre registri sono simbolico, immaginario, reale. Perché Lacan ha scelto proprio il termine registri per denotarli? Perché questa scelta del termine registres fa di tutti e tre i registri qualcosa di simbolico. In effetti, registro – un libro dove sono scritti atti pubblici – viene dal latino regesta, atti trascritti, letteralmente ‘ripetizione di gesta’. 
 Il riferimento alla trascrizione, alla scrittura, dà insomma a tutti e tre i registri lacaniani una stoffa simbolica, scritturale – grammatologica, direbbe Derrida. Ciò che si distingue dal simbolico – immaginario e reale – è pur sempre pensato come qualcosa di scritto o scrivibile o de-scrivibile, insomma, a partire dal simbolico. In quella fase del pensiero di Lacan (ma questa fase è mai tramontata?) il primato del simbolico rispetto agli altri registri è in-scritto, per dir così, nella stessa scelta terminologica di registri.
‘Scriversi’ è un modo di dire esistere, nel senso in cui questo termine viene inteso non solo nel linguaggio comune ma anche in filosofia? “Non cessa di non scriversi”, ad esempio, dovrebbe essere inteso come “non cessa di non esistere”?



 


 

martedì 29 novembre 2022

I cani ci guardano

 Andrea Giardina, i cani ci guardano (e io sono un po' imbarazzato)


Franco Marcoaldi, Baldo e Ribaldo




Courtesy Marina Machì, special guest Mia e Gigino


Rete Lacan n°46 – 14 settembre 2022


(...) Nelle lezioni tenute alla Sorbona tra il 1949 e il 1952, in particolare all’interno del ciclo L’enfant vu par l’adulte, Maurice Merleau-Ponty si avvicina con interesse alla psicoanalisi di Lacan, soffermandosi sulla funzione esercitata dallo specchio nello sviluppo infantile. Inserendosi nelle indagini condotte dallo psicologo e pedagogista Henri Wallon, il filosofo francese ne supera altresì alcuni limiti, rivelando la fecondità dell’incontro tra l’itinerario fenomenologico e quello psicoanalitico. 

Gioia Sili OLTRE LO SPECCHIO: LACAN E MERLEAU-PONTY

giovedì 19 settembre 2019

refrattari al linguaggio?

丨丨丨II丨
Gioele Dix su doppiozero

“Prima di tutto bisogna diffidare delle parole. Autista per esempio è un assurdo. Vuol dire ripiegato su di sé, ma è proprio perché non hanno sé che sono autisti! È difficile dire che questi ragazzi sono centrati in qualcosa che non esiste. Sono refrattari al linguaggio, nel senso che gli rimbalza addosso: le parole non possono dire più niente. All’inizio, quando gli parlavamo, era come a un muro, allora abbiamo smesso. Qualcuno dice: bisogna amarli. Io dico: bisogna rispettarli".
(...)
Fernand Deligny
“Perché i ragazzi hanno orecchie? Perché se non le avessero, gli adulti  non potrebbero riversarvi dentro tutte le loro stupidaggini”.

b-book alla città dei ragazzi

i pinguini alla conquista del mondo

un materasso che va a vapore


§



Les autistes à travers le cinéma de Fernand Deligny, pédagogue.






Il y a plusieurs formes d'autisme - P. Delion




Entre les lignes de Fernand Deligny, poète-éducateur 1913-1996





Ce gamin, là (Fernand Deligny & Renaud Victor, 1975)




Fernand Deligny et le Projet N (09 mai 1983)

III
 
III


Fabio Geda racconta Nel mare ci sono i coccodrilli

A Cristina Parodi Live la storia di Enaiatollah Akbari,
un ragazzo afghano che deve alla madre
la possibilità di una vita migliore in Occidente e
protagonista del romanzo di Fabio Geda
"Nel mare ci sono i coccodrilli".



III
III
III








lectio magistralis, 2019

III




Shinichi Suzuki nacque a Nagoya (Giappone) nel 1898...
Sin da piccolo lavorò nella fabbrica di violini del padre, 
occupandosi di sistemare le "anime" degli strumenti 
(piccoli cilindri di legno che stanno fra le tavole inferiore e superiore). 
All'età di 17 anni iniziò a suonare da autodidatta e a 22 , 
con il sostegno del marchese Tokugawa, andò in Europa per approfondire lo studio.
Grazie all'aiuto del marchese Tokugawa Suzuki conobbe Karl Klingler, 
uno dei più eminenti musicisti di Berlino, 
allievo del famoso violinista ungherese Jòzsef Joachim. 
Klingler è stato un grande quartettista e pedagogo, (...)

Nella Berlino degli anno '20 Suzuki venne a contatto 
con gli scritti e le idee di Piaget e della Montessori. 
In quel periodo erano già diffuse le ricerche di Dalcroze 
e iniziava ad esserci un approccio nuovo 
nei confronti dell'insegnamento infantile.
E' in questo ambiente culturale che iniziarono a formarsi 
la filosofia che anima la pedagogia di Suzuki e la tecnica violinistica: 
l'educazione del talento e il metodo della lingua madre.
Il concetto dell'educazione del talento è del tutto nuovo 
nella pedagogia strumentale dei primi del '900. 
Il talento non è più inteso come dote infusa da qualche divinità, 
ma come potenzialità posseduta da qualsiasi essere umano.
Suzuki fa sue le ricerche della Montessori 
che si diffondono nel periodo del soggiorno a Berlino, 
vedi il libro Absorbent Mind, e capisce che la fase di maggior ricettività
 dell' essere umano è tra i tre e i sei anni. 
Le proprie ricerche in ambito musicale lo portano a formulare 
il concetto di apprendimento passivo.
L'apprendimento passivo è particolarmente sviluppato 
nei bimbi tra gli zero e i tre anni. In questa fase il bimbo "assorbe"
 tutte le informazioni che lo circondano e le elabora.
Da qui nasce il concetto dell'insegnamento 
simile a quello della lingua madre.
Suzuki si rese conto che la lingua madre , per quanto complicata, 
viene appresa senza sforzo dalla quasi totalità degli esseri umani, 
anche quelli che hanno facoltà mentali meno sviluppate.
Le condizioni per questo tipo di apprendimento 
sono l'ambiente e la ripetizione.
E' celebre l'esempio del piccolo Mozart, 
il quale non sarebbe diventato musicista se fosse nato in una famiglia antimusicale.
Un altro esempio più volte citato da Suzuki 
e quello del ragazzo-lupo, divenuto tale poiché allevato dai lupi.
Lo stesso esempio è citato dalla Montessori e da Itard e Sèguin,
entrambi pedagoghi dell'800.
L'idea della lingua madre si riferisce anche 
all'importanza dei genitori nell'educazione.
 I suoni della lingua vengono appresi passivamente subito dopo la nascita. 
Il bimbo avrà l'accento della mamma e dell'ambiente che lo circonda.
L'applicazione di questa idea all'insegnamento del violino 
ha dato vita alle lezioni che prevedono la presenza di un genitore, 
il quale diventa una sorta di assistente dell'insegnante 
durante lo studio a casa. 
Perché il bimbo sia immerso in un ambiente musicale favorevole, 
Suzuki provvede a fornire le famiglie 
di dischi con le incisioni dei brani da apprendere. 
Questo stratagemma si è rivelato molto utile, 
soprattutto perchè basato sul sistema di apprendimento naturale. 
William Starr, un allievo di Suzuki, dice che alcune mamme giapponesi 
avevano registrato lo stesso brano più volte 
in modo che il figlio potesse ascoltarlo mentre giocava.

Questa idea rivoluzionaria negli anni '60 ebbe il sostegno di Masaru Ibuka, 
fondatore della Sony e grande ricercatore in campo pedagogico.
Osservando l'apprendimento dei bimbi Suzuki 
è riuscito anche a giustificare la cosiddetta "legge dell'abilità". 
Questo principio afferma che l'acquisizione di un'abilità da parte del bimbo 
è propedeutica per le future abilità. 
Questa osservazione empirica è sostenuta 
dagli studi di vari ricercatori 
ed è legata al funzionamento delle sinapsi cerebrali.
(...)






Suzuki en los 70 
All Japan Conference (1975)

III



Learning Music Theory

Superquark luglio 2001

III

Learning Music Theory

Intro to Music Learning Theory


§
Storia di Carlo

Ho conosciuto Carlo dieci anni fa. Erano arrivati da poco a Terranova del Pollino, lui e la mamma. Il padre lo conoscevo di vista, era originario di lì, ma poi si era messo a fare il marinaio e aveva viaggiato tutta la vita.

La sua maestra lo mandò da me perché non riusciva a leggere né a scrivere, per la verità aveva difficoltà anche a parlare. Io ero una maestra vecchio stampo, in pensione, e lì per lì pensai che le difficoltà di Carlo fossero legate alla situazione di disagio ambientale in cui viveva.

Poi abbiamo iniziato a fare delle visite, prima dall’otorino, perché pensavamo che Carlo non sentisse bene, poi dal dentista, per la masticazione inversa… col tempo abbiamo capito che aveva un ritardo che colpiva la zona temporale del cervello, quella che presiede alla concettualizzazione e alla generalizzazione.

Solo più tardi seppi che non era così dalla nascita, ma che questo deficit era stato provocato da un’encefalite virale, contratta quando aveva solo quattro anni.

Io che lo conosco, però, so bene che – se ha difficoltà nel pensiero astratto e nel pronunciare bene le parole – è bravissimo a ragionare sulle cose pratiche ed ha un’ottima memoria.

Ricorda bene la sua terra natale, dove ogni tanto ritorna. Lui è nato a Cután, un villaggio al Nord della Thailandia, quasi al confine con la Cambogia. E’ nato 18 anni fa, il giorno del capodanno buddista, ma ci tiene a precisare che lui è cristiano. Come Rocco, il suo il papà, che, nato montanaro, si era messo in testa di fare il marinaio. Faceva il mozzo sulle navi mercantili, che drenavano i fondali; in Thailandia si era fermato due o tre anni ed è lì che ha incontrato Som. Poi è nato Carlo.

Som era stata già sposata, aveva tre figli che ora sono grandi, infatti Carlo è già zio. Veniva da una famiglia poverissima, a casa sua dormivano sulle amache o sui tappeti. Mi ha raccontato di aver comprato per la prima volta una sedia quando si è fidanzata con Rocco. Però lei sarebbe rimasta lì, è stato Rocco a portarli a tutti costi in Italia, voleva che Carlo frequentasse le scuole qui.

Non so se sia stata una buona idea. A Terranova non si sono mai veramente integrati.
Som non parlava una parola di italiano e non comunicava con nessuno. Lei dice che è colpa del marito, lui non voleva che lei si inserisse. Per Carlo è stato più facile, era piccolo, giocava con i compagni di scuola. Ma quando è cresciuto le cose sono cambiate, i compagni hanno cominciato ad escluderlo. La mamma racconta che a scuola non ci voleva andare più, spesso piangeva.

Carlo adesso compirà 18 anni, è un compleanno importante e Som continua a ripetere che bisogna invitare tanta gente. Mi chiedo chi possano mai invitare. Io e mio marito siamo i loro unici amici. Ci prendiamo cura di Carlo e della sua mamma, pratichiamo un’adozione di prossimità, non a distanza. Questo per noi è un po’ uno slogan, ne abbiamo fatto uno stile di vita.
Seguiamo Carlo nel suo percorso scolastico, per anni lo abbiamo accompagnato alle sedute di logopedia. Ogni tanto si ferma a dormire da noi, la sera giochiamo a carte. Mio marito gira dei piccoli video, perché dice che i nostri giochi e i nostri dialoghi sembrano delle sedute di logopedia.
Certo, non lo vediamo tutti i giorni. Noi abitiamo fuori dal paese e quando Carlo sta a casa sua esce da solo, la mamma lo vorrebbe accompagnare ma lui non ne vuole sapere, ormai sono grande – dice. Per la strada saluta tutti, ma la gente lo evita, così dopo un po’ torna a casa, rattristato. Poi gli passa, si mette a giocare o a scrivere. Riempie pagine e pagine. Se glielo chiedi, lui ti dice che scrive in giapponese. A volte inizia a cantare e a ballare. Lui è bravissimo nel ballo. E anche nella mimica. In questo è fantastico. Una volta, a casa nostra, ha mimato cinque personaggi diversi, cambiando solo il cappello. Penso sempre che sia un peccato che qui non ci sia nessuna associazione che faccia dei corsi di recitazione.
In effetti Terranova offre davvero poco. Adesso penso che sia un bene che Carlo vada a scuola a Senise. Alle scuole medie ci avevano consigliato di aspettare, ci avevano detto che era troppo presto, così lo hanno fermato in terza media. Ma io vedo che da quando va a Senise sta meglio. Lì la gente non ha pregiudizi, i compagni hanno dimostrato grande apertura nei suoi confronti. Anche perché Carlo è un ragazzo piacevolissimo, io lo dico sempre che sei bello e sei bravo, Carlo, anche se ogni tanto ti sgrido. La tua mamma dice sempre che lei non può sgridarti, perché cuore di mamma non può essere duro.
Sì, mi sembra proprio che ci vada volentieri a scuola, lì a Senise. Ha anche un’amica del cuore, si chiama Luana, mi ha detto, in quel suo modo buffo. Mio marito, che è un gran chiacchierone, racconta sempre che quando dorme a casa nostra e la mattina è stanco e non vuole alzarsi per andare a scuola, basta pronunciare la parola magica. “Luana ti aspetta”. E Carlo balza subito in piedi. Se gli chiedi che cosa fanno in classe, ti risponderà cercando di pronunciare una parola difficilissima per lui: “Coccodrilli”. All’inizio non capivo, poi l’insegnante di italiano mi ha raccontato che stanno leggendo un libro – “Nel mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda – e che i compagni di classe semplificano a turno la storia per lui. Ne verrà fuori anche un audiolibro.
E’ bello che Carlo possa sentirsi pienamente parte della comunità scolastica.
In effetti lo vedo cambiato, in questo ultimo anno. Ora prende il pulmino per andare a scuola, senza la mamma. Lui ne è orgoglioso, si sente grande. E a pensarci bene è diventato davvero più responsabile, anche se ha sempre quelle strane manie, di giocare all’agente segreto (a scuola glia hanno anche fatto il tesserino dell’FBI!) o al Marines, con la mimetica e gli occhiali da sole. La mamma dice che se tornassero in Thailandia potrebbe fare davvero il Marines, a me sembra un’assurdità.
Però a volte mi piace immaginarlo grande, in divisa, su una nave, con il sole che incoccia e quegli occhi a mandorla che guardano il mare.

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Il viaggio di Carlo

Introduzione
Il testo che segue è un racconto a più voci. La modalità di narrazione scelta muove dalla disabilità di Carlo, che gli impedisce di raccontare in prima persona la sua storia. L’insegnante di italiano, i compagni di classe, l’educatrice, i tutori e la madre nella ricostruzione dell’insegnante di scienze umane: più punti di vista che mettono a fuoco il soggetto del racconto, cioè la vicenda scolastica ed umana di Carlo, un ragazzo venuto da lontano.

L’insegnante di italiano
E’ un nuovo anno scolastico che mi trovo ad affrontare. Se per un attimo mi fermo a pensare, gli anni trascorsi in questa scuola di Senise si sono susseguiti con rapidità ma mai sono stati piatti ed uguali: ogni anno ho potuto realizzare qualcosa di nuovo, piacevole e gratificante con gli alunni. Quest’anno il lavoro in classe non è facile: si lotta quotidianamente contro la generale demotivazione, la distraibilità degli alunni, le difficoltà di lettura e comprensione e i risultati sono davvero difficili da conseguire. L’unica via- credo- è inventarsi ogni anno qualche attività originale intorno a cui costruire qualcosa che abbia senso per loro e, nel contempo, che faccia ricaricare di energia anche me.
Insegno Italiano e Storia in una seconda classe dell’indirizzo socio-sanitario composta da 13 alunni. La maggior parte sono ragazze e solo due i maschi, anzi tre se considero la frequenza di Carlo.
Carlo oramai lo conosco da due anni. Ha iniziato a frequentare l’anno scorso la nostra scuola, a giorni alterni. Vive a Terranova, un paese del Pollino, in montagna, distante circa 50 minuti da Senise. Di lui conosco poco.
Ricordo l’anno scorso, quando la madre thailandese lo accompagnava alle 8:00 a scuola personalmente perché il ragazzo non era in grado di affrontare il viaggio da solo. Lei si sedeva sempre sulla panchina all’ingresso della scuola ed aspettava con una pazienza che mi impressionava, fino alla fine delle lezioni, per riprendere con Carlo il bus e ritornare a casa. Mi chiedevo come facesse a stare seduta lì tante ore, sola e così paziente ad aspettare tutta la mattinata il suo ragazzo. Quanti sacrifici - dicevo tra me - bisogna fare per permettere ad un ragazzo di frequentare la scuola.
E intanto, mentre io ero indaffarata tra fogli e libri, i compagni di classe lo vedevano a giorni alterni presentarsi a scuola vestito spesso con pantaloni mimetici a mo’ di militare e pensavano: sarà un ragazzo venuto da lontano, ma poco sapevano di lui.
Trascorse le prime settimane di scuola, mi venne un’idea. Dato che ero impegnata in alcune ore della mattina a sistemare i testi nella biblioteca scolastica, invitai la mamma a seguirmi. Mi dispiaceva vederla lì, nell’atrio, sempre sola con cuffiette nelle orecchie. Parlava poco l’italiano ma si fidò di me e mi seguì. La accompagnai nella sala biblioteca e la invitai ad accomodarsi. Almeno avrebbe avuto un ambiente caldo ed accogliente dove attendere per ben cinque ore fino al suono della campana! I primi giorni, stette sempre con le cuffiette nelle orecchie ma, pian piano, prese confidenza con noi e con l’ambiente, infatti si presentò, dopo vari giorni, con una borsa tutta colorata dalla quale estrasse un uncinetto e cominciò senza sosta a lavorare. Aveva fatto progressi - pensavo. E così, tra lavori manuali ad uncinetto e la polvere dei libri che dovevamo sistemare, passò l’inverno e poi la primavera. Poi li ho persi di vista nel periodo estivo.
A settembre di quest’anno, quando sono riprese le attività, ho saputo che Carlo avrebbe frequentato tutti i giorni e che era stato possibile per lui, grazie alla disponibilità di alcuni volontari, viaggiare da Terranova a Senise con un pulmino guidato da un signore di nome Leonardo che lo lascia puntualmente davanti scuola di mattina e lo riprende all’uscita.
Il suo volto è sempre sorridente: insomma, l’anno scorso la madre, quest’anno, invece, un bel giovanotto che traghetta Carlo da Terranova a Senise. Chissà cosa si diranno durante il viaggio ogni mattina, considerando che Carlo si esprime in modo - non so come dire - strano.
Certo, dall’anno scorso ad oggi, i suoi progressi nella comunicazione sono visibili ma mi resta il dubbio se sia migliorato lui oppure se sono io che ho cominciato a decifrare il suo linguaggio. Comunque fa lo stesso. Nella classe, le alunne hanno fatto molto di più rispetto a me. Sarà l’età che mi rende spesso distante da loro, sarà il mio ruolo che inevitabilmente inchioda loro come alunni e me come docente, a rendere spesso difficile la comunicazione fluida. Ma con i compagni della classe, Carlo vive un rapporto più libero anche se devo riconoscere che lui ha affinato, già dall’anno scorso, le sue preferenze. Le sue due compagne preferite nella comunicazione sono Giusy per quella verbale (un poco più sofferta per Carlo) e Luana per quella del cuore: certo in questa seconda comunicazione, Carlo fa progressi rapidissimi.
Saranno stati i due anni di vita in biblioteca o la necessità di realizzare una attività che potesse includere Carlo non solo fisicamente con la vicinanza dei banchi ma, integralmente, ho deciso che avrei fatto leggere in classe un libro di narrativa. Assegnare qualcosa da leggere a casa è una reminiscenza del mio passato scolastico. A questa determinazione aggiungo l’insostenibile imbarazzo di stare sempre in classe in compresenza con l’assistente educativa e l’insegnante di sostegno di Carlo impegnati a fare attività completamente diverse da quelle dei compagni. E così è iniziata la mia esperienza.
Tra le tante proposte di lettura, non so perché, il caso mi ha fatto conoscere Fabio Geda, un autore di Torino che qualche anno fa ha pubblicato un romanzo, Nel mare ci sono i coccodrilli. Devo ammettere che mi ha particolarmente colpito la copertina: un ragazzino vestito di bianco, rappresentato piccolo piccolo in piedi, nel mezzo del mare, su un coccodrillo enorme. Mi ha ricordato quei coccodrilli gonfiabili che fanno la gioia dei bambini sulla spiaggia d’estate. E’ stato amore a prima vista: è bastato questo e così ho cominciato a viaggiare insieme con gli alunni in classe. Credo che la lettura sia un viaggio nella fantasia o nella realtà che ci permette di entrare in relazione con personaggi che sono altro da noi o simili a noi, che vivono esperienze che forse vorremmo provare, che soffrono o gioiscono, insomma che ci insegnano i sentimenti.
I primi giorni non è stato facile: mi spiego. Far stare fermi in silenzio tutti e tredici gli alunni, concentrati sui banchi a leggere ad alta voce la storia di Einaiatollah. Già il nome era impossibile da pronunciare. Infatti è la storia di un ragazzino di 10 anni originario di un villaggio dell’Afghanistan che, per motivi religiosi ed etnici, fugge via dalla sua famiglia originaria e compie un lungo viaggio fino a giungere in Italia. Attraversando vari paesi, dal Pakistan, all’Iran, dalla Turchia alla Grecia, vivendo varie esperienze di vita piacevoli e spiacevoli, dalla Grecia si imbarca per l’Italia e, finalmente, dopo tanti e tanti chilometri, giunge a Torino. Qui, dal centro di accoglienza per stranieri, dalla vita di comunità, ha la fortuna di essere accolto da una famiglia e riprende una vita adatta alla sua età. Frequenta la scuola, i corsi di Italiano, consegue un diploma e, grazie al rilascio del permesso di soggiorno, potrà restare a Torino e vivere senza però dimenticare il suo punto di partenza: la sua famiglia lontana e soprattutto la madre. Insomma la storia di un viaggio inteso come occasione di trasformazione umana attraverso l’incontro con l’altro e come opportunità di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento.
La trama del racconto mi è sembrata subito interessante per Carlo: anche lui, come Einaiat, proviene da un paese lontano, un villaggio della Thailandia portando con sé, in Italia, una doppia differenza: di straniero e di diversamente abile.
E poi, eccolo qui, stamattina, seduto a cerchio con i suoi compagni a leggere il secondo capitolo del libro, Pakistan, previsto oggi. Già oggi mi sembra di avere una maggiore attenzione da parte di tutta la classe rispetto a tre giorni fa, quando ho iniziato la lettura ad alta voce. Credo che la storia del viaggio piaccia ai ragazzi e soprattutto le varie esperienze che fa il protagonista. Il capitolo racconta dell’arrivo di Einaiat a Quetta, in Pakistan, quando, per necessità, ha iniziato a lavorare in una stanza-dormitorio.
Dopo circa sei mesi di lavoro gratis, un negoziante lo aveva notato e gli aveva offerto un nuovo lavoro: vendere per strada caramelle, gomme e calzini per guadagnare qualche soldino. Poi, un giorno, dei ragazzi prepotenti gli hanno rubato delle gomme. Lui ha avuto paura di essere picchiato ma alcuni ragazzi dagli occhi a mandorla come i suoi, lo hanno difeso. Uno di questi si chiamava Sufi e, da allora, diventò il suo migliore amico. Insieme poi decisero di abbandonare il Pakistan e raggiungere l’Iran perché lì avevano saputo che c’era più possibilità di lavoro.
In classe, leggiamo a turno ad alta voce: molti si vergognano. Luana, Teresa, Giusy sono più spedite e sicure mentre Mariangela, Mariapia, Mario e Giovanni pensano di essere osservati e così, badando più a pensare a ciò che gli altri pensano di loro che alle righe del libro, puntualmente saltano i righi e pronunciano male le parole. Carlo invece, anche se non può leggere perché riesce giusto a riconoscere brevi monosillabi o parole bisillabe, ascolta con grande attenzione. Sembra quasi una seduta spiritica: tutti concentrati ad ascoltare le avventure di Einaiat e così trascorre la prima ora. Non so cosa abbia compreso Carlo di questa storia ma - di certo – stare insieme ai suoi compagni ed imitarli nella posa di star seduti a cerchio, evidentemente gli piace e lo fa sentire fisicamente con gli altri.
Si stacca ora giusto dieci minuti per la ricreazione e si riprende la lezione: di nuovo tutti nella posizione di seduta spiritica e si continua. Ora è il turno di Martina che continua da dove avevamo lasciato. Carlo la guarda attentamente nel movimento delle labbra e la segue in gran silenzio.
Il capitolo è terminato per oggi e chiedo, alla fine, agli alunni di riassumerne il contenuto rispettando le sequenze narrative che abbiamo individuato. Carlo mi guarda con quei suoi grandi occhi a mandorla simili ad Einaiat che, pur essendo afghano, era di etnia hazara con spiccati tratti mongoli. Ed è proprio questo il motivo per cui era perseguitato: infatti in Afghanistan la maggioranza è di etnia pashtun.
Forse Carlo si aspetta che dia anche a lui qualcosa da svolgere. L’incrocio di sguardi tra me e l’assistente educativa, Veronica, è immediato: ci siamo capite in silenzio. Mi rivolgo a Giusy e le chiedo se l’idea di semplificare per Carlo il testo Nel mare ci sono i coccodrilli sia utile. Lei mi risponde: penso che sia molto valida perché lui in questo modo può comprendere la storia con la sua intelligenza. In questo modo non viene escluso e credo proprio che questa attività lo gratifichi molto. Inoltre anche noi possiamo imparare alcune cose viste con i sui occhi.
Poi, rivolgendo a Luana la stessa domanda, mi risponde sì, perché ha l’opportunità di fare le nostre stesse cose, anche se in maniera diversa, sarà un modo per includerlo nei nostri lavori.
L’idea si è, così, presto, concretizzata: incredibile e unica l’esperienza dell’insegnamento. Si parte pensando di seguire un percorso perché è la logica della programmazione ispirata a principi di razionalità ma poi la vita della classe ci travolge come un mare in tempesta e ci fa spesso ritrovare su sponde ignote ed inesplorate.  Così le chiedo di sintetizzare la vicenda del capitolo di oggi, scegliendo con la sua sensibilità e bravura ciò che potrebbe essere piacevole per Carlo. Da come è andata la giornata stamattina, credo che abbiamo trovato una strada da percorrere per essere tutti protagonisti: leggeremo i vari capitoli e successivamente, a turno, i compagni semplificheranno la storia per Carlo, al resto ci penseranno Veronica ed Alessio, l’insegnante di sostegno. Le brevi storie dei capitoli potranno essere illustrate con disegni che Carlo potrà colorare e rendere sue. Le immagini gli permetteranno di ricostruire la vicenda di Einaiat e di seguire, passo dopo passo, il nostro viaggio nella lettura.
Oggi è il terzo incontro di lettura ad alta voce che corrisponde al capitolo Iran. Il nostro solito cerchio magico comincia ad agire: Tiziana inizia la lettura e Carlo sta sempre attento ad ascoltare. Credo sempre di più che questo gioco gli piaccia e, quando Veronica gli chiede: Carlo, che lavori fa Einaiat? Carlo risponde:
caeiere, uatoe, aovae… insomma cameriere, muratore, manovale. Io davvero mi sorprendo perché vedo che Carlo ricorda e comprende gli avvenimenti narrati. Il problema è che, quando risponde, non sempre lo capisco, anzi quasi mai. A questo punto, interviene Giusy che mi dicono sia l’alunna che meglio interpreta Carlo nel linguaggio e mi faccio spiegare da lei le altre risposte. Per esempio, alla domanda: come si chiama il miglior amico di Einaiat? Carlo risponde Ui. Subito traduce Giusy: Sufi. Davvero credo si sia creata una bella rete umana in questa classe.
Siamo giunti al quarto incontro di lettura e leggendo, leggendo siamo arrivati in Turchia dove Sufi ed Einaiat, insieme ad altri profughi, decidono di arrivare dalle coste turche all’isola di Lesbo, in Grecia gonfiando un gommone. Per attraversare la striscia di mare che li separava da Lesbo, servivano tre ore e, ad un tratto, uno di loro dice di stare attenti perché nel mare c’erano i coccodrilli.  Liaquat risponde Non ci sono i coccodrilli in mare. Partiti, il mare era agitato e le onde si alzavano e scendevano rapidamente riempiendo il loro piccolo gommone di acqua. Hanno continuato a remare tra le urla e i litigi di chi voleva ritornare verso la Turchia e chi, come Einaiat, voleva proseguire verso la Grecia. Ad un certo punto, una nave è passata di fianco alzando onde artificiali nelle quali è scomparso Liaqat: tutti hanno urlato “Liaqat, Liaqat” ma, ormai, era inutile: di lui nessuna  traccia.  Stanchi e tristi, si sono addormenti.
Carlo ascolta anche oggi con attenzione ma lo vedo agitato perché quando deve ripetere chi fa paura nel mare? I coccodrilli, mi rendo conto che la parola coccodrilli è davvero uno sforzo eccessivo per lui. Giusy cerca di aiutarlo a pronunciare la fatidica parola ma avverte che Carlo è in tensione. In classe si è creata un poco di confusione e lei è certa che la confusione e le urla gli danno molto fastidio. Carlo ha bisogno di attività tranquille dove lui possa avere ampio spazio.
Allora, dopo qualche minuto di silenzio, penso che Carlo, pur se si esprime con estrema difficoltà, ha altri sensi che possono supportarlo: l’udito per esempio. Infatti, in tutte queste giornate, ha ascoltato le vicende di Einaiat raccontate dai suoi compagni. Così è nata un’altra idea. Penso davvero che è incredibile come, nelle esperienze della vita, non sia possibile preordinare le nostre mosse prima di viverle. Voglio dire che il primo giorno tutto era diverso da oggi: Carlo nel suo banchetto con Veronica o Alessio e noi a leggere. Oggi Carlo sta in cerchio con noi e ascolta la storia che stiamo costruendo insieme, con il contributo di tutti, la sua piccola storia con parti brevi scritte e disegnate. Ma la storia del libro tra due giorni finirà e a Carlo chi potrà ancora raccontare?
Ecco che partorisce dal gruppo l’idea di un audiolibro per Carlo. I compagni leggeranno i vari mini capitoli scritti a misura per lui in modo che le loro voci potranno essere sempre riascoltate. Tiziana si occuperà della scelta delle musiche di sottofondo: musiche afghane, pakistane, iraniane, turche, greche ed italiane.
Il gruppo-classe è convinto ed ognuno ha un ruolo da svolgere. Davvero la vita nella nostra classe è un viaggio: apparentemente siamo stati seduti nei banchi ogni giorno ma, in realtà, la lettura del libro ci ha fatto viaggiare e diventare diversi. Abbiamo trovato il modo di integrare Carlo con noi, rendendolo non tanto diverso da noi, capace di crescere attraverso noi. E noi? Non siamo tanto diversi da Carlo: abbiamo imparato dai suoi bisogni speciali, che è importante guardare e ascoltare chi ci sta di fronte per capire il suo mondo perché la meta del viaggio, come scrive Magris, sono gli uomini.



I compagni di classe
(Luana)
Carlo lo conosco dall’anno scorso. Fin dal primo momento ha legato molto con tutta la classe, ma in particolare con me.  Inizialmente non capivamo molto quello che diceva, ma con il passare del tempo noi abbiamo imparato a capirlo e lui ha migliorato il suo linguaggio. L’anno scorso frequentava la scuola solo tre volte a settimana e, per quanto stava con noi, non avevamo molti contatti, anche perché maggior parte del tempo lo passava con la sua assistente. Invece quest’anno viene a scuola cinque giorni su sei. All’inizio di quest’anno scolastico, in cui c’erano alcune ore buca, lui ha passato molto del suo tempo con noi e ha conosciuto giochi come la “morra”, ha imparato bene a pronunciare e scrivere i nostri nomi e anche qualche ritornello di canzoni come la sigla di Dragon Ball, Soldi, L’amico è e così via. Con il passare del tempo ho legato sempre di più con lui, infatti, un giorno quando è entrato in classe, mi ha portato una lettera in cui diceva che mi voleva bene e che ero una sua amica; rimasi molto contenta del fatto che un ragazzino come lui mi considerasse migliore amica. Il giorno seguente mi regalò un anello. Alcuni pensavano che lui provasse qualcosa per me, ma io sapevo che questo l’aveva fatto per amicizia, per farmi capire quanto mi vuole bene. Una volta, dopo la ricreazione, abbiamo notato che Carlo piangeva, inizialmente non voleva parlare con nessuno poi la professoressa mi ha chiesto di stargli vicino, quindi mi sono avvicinata a lui e l’ho tranquillizzato, l’ho portato fuori dalla classe e mi sono fatta raccontare ciò che era successo. Quando siamo rientrati mi ha ringraziato per tutto e mi ha abbracciata. Penso che avere Carlo in classe sia stato un arricchimento per tutti ma soprattutto per me perché mi ha insegnato ad affrontare e vedere e cose con semplicità.
Uno dei tanti ricordi che ho di lui è il giorno del suo compleanno. Quando ha compiuto 17 anni, gli abbiamo organizzato una piccola festa a scuola. Gli abbiamo regalato una maglietta, i professori gli hanno preparato le torte e inoltre, durante le ore di metodologie operative, noi compagni di classe abbiamo realizzato dei cartelloni con le nostre firme e gli auguri. Carlo è rimasto molto contento della festa a sorpresa e di tutto quello che avevamo preparato per lui. Non si aspettava tutto questo calore e partecipazione da parte nostra ma sicuramente, anche da quel gesto, ha capito che gli vogliamo molto bene. A Carlo piace avere molte attenzioni, non perché sia egocentrico, bensì perché vuole renderci partecipi delle sue azioni. Sinceramente non saprei definire bene la sua disabilità. So solo che inizialmente non capivo molto bene quello che diceva, poi con il passare del tempo ho imparato a comprenderlo. La più grande difficoltà, oltre a questa, è il comportamento da avere nei suoi confronti, ad esempio so che un atteggiamento che invade troppo il suo spazio può dargli fastidio.
(Teresa)
Un giorno Carlo entrò in classe, io notai sul suo volto un’aria preoccupata, così mi avvicinai, facendogli capire che di me poteva fidarsi. Mi guardò, fissandomi dritta negli occhi, poi mi spiegò il motivo, parlandomi di un litigio con un amico. Da quel momento, capii che per lui l’amicizia era davvero una cosa unica. Notai il suo affetto nei miei confronti attraverso dei semplici gesti come un sorriso, un saluto a fine giornata o semplicemente uno sguardo quando doveva lasciare per pochi istanti la classe.
Per farsi conoscere meglio, mi parlò dei suoi piatti preferiti (spaghetti di soia, riso…) e dei suoi giochi abituali. Durante le assemblee di istituto, ha manifestato molto interesse per i balli di gruppo e per i vari giochi. Mi colpì la sua educazione nei confronti di tutti coloro che gli stavano attorno, di ogni fascia di età. Il suo modo di ringraziare, inchinandosi, suscitò in me stupore. Fu una cosa inaspettata, come la volta in cui mi aprì la porta della classe prima di uscire. Una volta si avvicinò a me, mi fece dei complimenti: io gli sorrisi e, dopo, di corsa, si sedette al suo posto, così andai da lui chiedendogli il perché di quella strana reazione; mi rispose mostrandomi la foto, per poco coperta dalle sue mani, di sua sorella che non vedeva da molto. Gli dissi di non preoccuparsi, di non piangere e che sicuramente si sarebbero rivisti. Dopo ciò mi toccò la spalla e si alzò ringraziandomi.
Ciò che lo caratterizza maggiormente è il modo di vestire, associato al suo interesse per l’ F.B.I. nato, come cercò di spiegarmi, dalla visione di un film che lo ispirò per la sua ipotetica missione. Penso che Carlo mi abbia insegnato tante cose: ad esempio, trasformare i difetti in pregi e guardare ciò che ci circonda, anche con immaginazione, da un altro punto di vista.  

(Giusy)
Era un mercoledì del 2017, quando Carlo arrivò per la prima volta nella nostra scuola. Entrò in classe accompagnato dalla mamma thailandese che, dopo averlo lasciato, scendeva giù nell’atrio ad aspettarlo fino al suono della campanella di fine giornata.
Carlo era sorridente e felice, ma mostrava anche tanta timidezza, capiva ciò gli veniva chiesto però aveva innumerevoli difficoltà ad esprimersi. Capii subito la sua disabilità e quindi cercai un modo per farlo sentire il più possibile a suo agio. Appena si sedette nel banco, cominciammo subito a presentarci dicendogli anche i nostri hobby e lui, a modo suo – gesticolando - fece lo stesso. Alle 11:00 suonò la campanella della ricreazione ma lui, non conoscendo l’ambiente, restò lì seduto nel suo banco a mangiare una mela. Finita la ricreazione si avvicinò alla finestra, si tappò un orecchio con un dito e cominciò a comunicare con qualcuno.
Appena terminò la ricreazione, ci avvicinammo tutti alla finestra per raggiungerlo provando a parlarci e lui ci mostrò le sue foto, penso che sia stato un suo modo di presentarsi. Le ultime ore le trascorremmo cercando di accoglierlo e parlando con lui. Ricordo che provai a chiedergli se la prima giornata trascorsa con noi era stata di suo gradimento. Lui, a parole sue, ma soprattutto con il suo sguardo,  mi fece capire che era stata bella. Dopo dieci minuti la bidella salì a prenderlo per accompagnarlo al piano terra da sua madre. La giornata finì.
Lo scorso anno frequentava solo tre volte a settimana (non so se per motivi logistici oppure per non dargli un impatto troppo forte e stancarlo). In classe -però- non è stato accolto nello stesso modo da tutti; io lo capivo abbastanza bene, altri erano più timidi e non sapevano come avvicinarsi. A distanza di un anno e mezzo- posso dire di conoscere un po’ meglio Carlo: ad esempio, cosa lo rende felice e le sue fragilità. Credo che Carlo sia una risorsa per la nostra classe perché ci permette di guardare il mondo con occhi diversi.

L’assistente educativa
Ricordo perfettamente il giorno del nostro primo incontro. Era una gelida mattina di gennaio, i ragazzi seguivano la lezione di storia dell’arte nell’aula Lim. Busso, entro e vedo 13 ragazzi fissarmi, incuriositi per capire chi fossi. Mi presento e subito la mia attenzione viene attirata da un ragazzo vicino alla finestra, con due occhioni grandi, a mandorla che mi sorridono.
Ero impaurita, temevo di non essere accettata. Mi avvicinai a passo lento e Carlo mi prese la mano e baciò il palmo. Un gesto così inconsueto ma così dolce che capii di essere entrata in relazione con lui.
I primi giorni passammo le ore ad osservarci, a capire quale fosse il modo migliore per comunicare. Ma fin da subito capii che Carlo era speciale. Spesso faceva fatica a rispondermi ma, a modo suo, lo faceva.  Ho cercato più volte di mettermi nei suoi panni.  Non bisogna perdere di vista il fatto che, ogni essere umano, porta con sé un suo mondo, dei vissuti personali, uno stile di vita, un carattere, ed è per questo motivo che ognuno di noi è unico e speciale.
Le difficoltà di Carlo, in classe, non costituiscono un ostacolo ma evidenziano che la realtà non è uniforme. La scuola è per Carlo un’occasione di crescita, ma Carlo è per la scuola un’occasione di confronto e di riflessione.
Carlo è un ragazzo molto dolce, è un ottimo osservatore ma spesso il frutto delle sue osservazioni lo intristisce, forse perché il suo sguardo va oltre quello che noi percepiamo.
Quest’anno Carlo con i suoi compagni, è impegnato in un progetto di lettura e rielaborazione del libro "Nel mare ci sono i coccodrilli". Fin da subito la similitudine tra la storia vera di Carlo e il racconto del viaggio di Enaiatollah è stata molto evidente.
Per Carlo gli obiettivi principali sono: l'ascolto, la formulazione di semplici, brevi, ma chiare  risposte (qual è il soggetto ritratto, quale il luogo, quali i colori utilizzati, le sensazioni percepite), tutto attraverso le immagini.
I compagni di classe hanno semplificato il testo, con tecniche quali l’uso del verbo al tempo presente in prima persona, l’uso di una sintassi basica (soggetto- verbo- oggetto), l’uso di espressioni del vocabolario di base. In seguito, abbiamo realizzato con Carlo, e per Carlo un mini libro illustrato perché le immagini  lo agevolano  nella comprensione, lo stimolano a livello percettivo, attirano la sua attenzione su  persone, luoghi e oggetti.
Uno degli obiettivi principali è il recupero di sensazioni ed esperienze passate attraverso l’utilizzo delle immagini. A tal proposito, un giorno Carlo, mentre colorava il coccodrillo, simbolo del libro, mi fece una domanda: “Professoressa ha paura dei coccodrilli?” Ovviamente io risposi di sì, chi non ha paura dei coccodrilli! Allora Carlo mi raccontò di aver visto i coccodrilli nel suo paese, la Thailandia, e di non avere alcuna paura di loro.

Leonardo, l’autista del pulmino
Da quest’anno accompagno Carlo dal suo paese Terranova di Pollino alla scuola di Senise con un pulmino privato. L’anno scorso so che il ragazzo frequentava solo tre volte alla settimana la scuola superiore e che era la madre ad accompagnarlo personalmente con il bus di linea. Io sono dello stesso suo paese, Terranova, avevo notato già il ragazzo ma poco ci avevo avuto a che fare. Come in tutti i paeselli, ognuno si conosce nelle proprie storie ma, a dire la verità, spesso l’ho visto solo o insieme alla madre per le vie di Terranova. Da quest’anno, grazie al rapporto che ho con lui durante il tragitto di circa 40 minuti, posso dire di conoscerlo meglio.
Ogni mattina, alle 7:15 parto proprio dalla piazza e qui arriva puntualmente la madre di Carlo ad accompagnarlo. I primi tempi Carlo era diffidente con me ma, conoscendomi meglio, si è tranquillizzato. Durante il viaggio per giungere a Cersosimo dove aspettano altri 15 ragazzi Carlo siede accanto a me, guarda dal finestrino il suo paesello che pian piano diventa sempre più un punto nell’infinito e, appena vede altri ragazzi si affanna a salutarli. Arrivati a Cersosimo, il pulmino è pieno e, a questo punto, l’umore ci Carlo cambia un poco. Ho notato che gli dà fastidio la confusione e allora cerco di mantenere la calma. Salvo questo aspetto del suo carattere, credo proprio che, da quando viaggia per venire a scuola a Senise, Carlo sia molto migliorato nel linguaggio. Quando siamo sul bus e mi domanda qualcosa, io gli rispondo senza sforzo perché forse mi sono abituato anche io alla sua pronuncia delle parole. Certamente Carlo parla molto di più e lo vedo sempre allegro e felice di arrivare a scuola.
Alle 13:00 mi faccio trovare davanti al cancello della scuola e aspetto che Carlo scenda dalla classe. Ormai è diventata un’abitudine quotidiana. Poi ripartiamo per tornare a Terranova dove Carlo rientra a casa. Comunque credo fermamente che la scuola per Carlo sia grande opportunità di miglioramento.

La tutrice nel racconto dell’insegnante di scienze umane
Ho conosciuto Carlo dieci anni fa. Erano arrivati da poco a Terranova del Pollino, lui e la mamma. Il padre lo conoscevo di vista, era originario di lì, ma poi si era messo a fare il marinaio e aveva viaggiato tutta la vita.
La sua maestra lo mandò da me perché Carlo non riusciva a leggere né a scrivere, per la verità aveva difficoltà anche a parlare. Io ero una maestra vecchio stampo, in pensione, e lì per lì pensai che le sue difficoltà fossero legate alla situazione di disagio ambientale in cui viveva.
Poi abbiamo iniziato a fare delle visite, prima dall'otorino, perché pensavamo che Carlo non sentisse bene, poi dal dentista, per la masticazione inversa… col tempo abbiamo capito che aveva un ritardo che colpiva la zona temporale del cervello, quella che presiede alla concettualizzazione e alla generalizzazione.
Solo più tardi seppi che non era così dalla nascita, ma che questo deficit era stato provocato da un’encefalite virale, contratta quando aveva solo quattro anni.
Io che lo conosco, però, so bene che – se ha difficoltà nel pensiero astratto e nel pronunciare bene le parole – è bravissimo a ragionare sulle cose pratiche ed ha un’ottima memoria.
Ricorda bene la sua terra natale, dove ogni tanto ritorna. Lui è nato a Cután, un villaggio al Nord della Thailandia, quasi al confine con la Cambogia. E’ nato 18 anni fa, il giorno del capodanno buddista, ma ci tiene a precisare che lui è cristiano. Come Rocco, il suo il papà, che, nato montanaro, si era messo in testa di fare il marinaio. Faceva il mozzo sulle navi mercantili, che drenavano i fondali; in Thailandia si era fermato due o tre anni ed è lì che ha incontrato Som. Poi è nato Carlo.
Som era stata già sposata, aveva tre figli che ora sono grandi, infatti Carlo è già zio. Veniva da una famiglia poverissima, a casa sua dormivano sulle amache o sui tappeti. Mi ha raccontato di aver comprato per la prima volta una sedia quando si è fidanzata con Rocco. Però lei sarebbe rimasta lì, è stato Rocco a portarli a tutti costi in Italia, voleva che Carlo frequentasse le scuole qui.
Non so se sia stata una buona idea. A Terranova non si sono mai veramente integrati. Som non parlava una parola di italiano e non comunicava con nessuno. Lei dice che è colpa del marito, lui non voleva che lei si inserisse. Per Carlo è stato più facile, era piccolo, giocava con i compagni di scuola. Ma quando è cresciuto le cose sono cambiate, i compagni hanno cominciato ad escluderlo. La mamma racconta che a scuola non ci voleva andare più, spesso piangeva.
Carlo adesso compirà 18 anni, è un compleanno importante e Som continua a ripetere che bisogna invitare tanta gente. Mi chiedo chi possano mai invitare. Io e mio marito siamo i loro unici amici. Ci prendiamo cura di Carlo e della sua mamma, pratichiamo un’adozione di prossimità, non a distanza. Questo per noi è un po’ uno slogan, ne abbiamo fatto uno stile di vita.
Seguiamo Carlo nel suo percorso scolastico, per anni lo abbiamo accompagnato alle sedute di logopedia. Ogni tanto si ferma a dormire da noi, la sera giochiamo a carte. Mio marito gira dei piccoli video, perché dice che i nostri giochi e i nostri dialoghi sembrano delle sedute di logopedia.
Certo, non lo vediamo tutti i giorni. Noi abitiamo fuori dal paese e quando Carlo sta a casa sua esce da solo, la mamma lo vorrebbe accompagnare ma lui non ne vuole sapere, ormai sono grande – dice. Per la strada saluta tutti, ma la gente lo evita, così dopo un po’ torna a casa, rattristato. Poi gli passa, si mette a giocare o a scrivere. Riempie pagine e pagine. Se glielo chiedi, lui ti dice che scrive in giapponese. A volte inizia a cantare e a ballare. Lui è bravissimo nel ballo. E anche nella mimica. In questo è fantastico. Una volta, a casa nostra, ha mimato cinque personaggi diversi, cambiando solo il cappello. Penso sempre che sia un peccato che qui non ci sia nessuna associazione che faccia dei corsi di recitazione.
In effetti Terranova offre davvero poco. Adesso penso che sia un bene che Carlo vada a scuola a Senise. Alle scuole medie ci avevano consigliato di aspettare, ci avevano detto che era troppo presto, così lo hanno fermato in terza media. Ma io vedo che da quando va a Senise sta meglio. Lì la gente non ha pregiudizi, i compagni hanno dimostrato grande apertura nei suoi confronti. Anche perché Carlo è un ragazzo piacevolissimo, io lo dico sempre che sei bello e sei bravo, Carlo, anche se ogni tanto ti sgrido. La tua mamma dice sempre che lei non può sgridarti, perché cuore di mamma non può essere duro.
Sì, mi sembra proprio che ci vada volentieri a scuola, lì a Senise. Ha anche un’amica del cuore, si chiama Luana, mi ha detto, in quel suo modo buffo. Mio marito, che è un gran chiacchierone, racconta sempre che quando dorme a casa nostra e la mattina è stanco e non vuole alzarsi per andare a scuola, basta pronunciare la parola magica. “Luana ti aspetta”. E Carlo balza subito in piedi. Se gli chiedi che cosa fanno in classe, ti risponderà cercando di pronunciare una parola difficilissima per lui: “Coccodrilli”. All’inizio non capivo, poi l’insegnante di italiano mi ha raccontato che stanno leggendo un libro – “Nel mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda – e che i compagni di classe semplificano a turno la storia per lui. Ne verrà fuori anche un audiolibro. E’ bello che Carlo possa sentirsi pienamente parte della comunità scolastica.
In effetti lo vedo cambiato, in questo ultimo anno. Ora prende il pulmino per andare a scuola, senza la mamma. Lui ne è orgoglioso, si sente grande. E a pensarci bene è diventato davvero più responsabile, anche se ha sempre quelle strane manie, di giocare all’agente segreto (a scuola gli hanno anche fatto il tesserino dell’FBI!) o al Marines, con la mimetica e gli occhiali da sole. La mamma dice che se tornassero in Thailandia potrebbe fare davvero il Marines, a me sembra un’assurdità.
Però a volte mi piace immaginarlo grande, in divisa, su una nave, con il sole che incoccia e quegli occhi a mandorla che guardano il mare.