Prestami lo sguardo
a partire da:*
* Ho già citato diverse volte il mio attacco, la mia prima frase («Come giudicare - Jean-Francois Lyotard?»). Perché questa prima frase? Innanzitutto, voi ve lo aspettate ed io ne dirò subito ancora una parola, per rompere, nell'amicizia, con il conforto nel quale rischierebbe di installarsi il nuovo genere di queste decadi che, con mille buone ragioni che una volta avevo approvato e che restano buone ragioni, pretenderebbe di svilupparsi «a partire da» o, meglio, «a partire dal lavoro di» - piuttosto che parlare direttamente di o di rivolgersi direttamente a - qualcuno. C’è in questo diniego e precedenza. Quale che ne sia la legittimità (cortesia, discrezione da una parte e dall'altra, il lavoro preferito alla celebrazione, ecc.), non bisogna lasciarla fuori dalla domanda. Poi, ho citato la mia prima frase per indebitarci immediatamente, di un’altra citazione, nei confronti di La condition postmoderne [1],
* Ho già citato diverse volte il mio attacco, la mia prima frase («Come giudicare - Jean-Francois Lyotard?»). Perché questa prima frase? Innanzitutto, voi ve lo aspettate ed io ne dirò subito ancora una parola, per rompere, nell'amicizia, con il conforto nel quale rischierebbe di installarsi il nuovo genere di queste decadi che, con mille buone ragioni che una volta avevo approvato e che restano buone ragioni, pretenderebbe di svilupparsi «a partire da» o, meglio, «a partire dal lavoro di» - piuttosto che parlare direttamente di o di rivolgersi direttamente a - qualcuno. C’è in questo diniego e precedenza. Quale che ne sia la legittimità (cortesia, discrezione da una parte e dall'altra, il lavoro preferito alla celebrazione, ecc.), non bisogna lasciarla fuori dalla domanda. Poi, ho citato la mia prima frase per indebitarci immediatamente, di un’altra citazione, nei confronti di La condition postmoderne [1],
[1] J.-F. Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le
savoir, Minuit, Paris 1979; tr. it. La
condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, tr. di
Carlo Formenti, Feltrinelli, Milano 19873, NdT.
Filippo Fimiani, Lo sguardo parlato, in
Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini
a cura di Antonio
Somaini, Vita e Pensiero, 2005
Tourner les mots (J. Derrida e Safaa Fathy)
Delega.
Mandato ottico (video)
D’ailleurs,
Derrida (film e sceneggiatura)
Das Scritti in onore di Dario Sala
La storia di
Carlo
Jacques
Derrida
Quando i nostri occhi si toccano
Il video è
stato girato nel giugno del 2000 nell'abitazione privata di Jacques Derrida,
fuori Parigi. I due momenti del filmato corrispondono alla lettura di due
brani; il filo conduttore è il tema dell’invasione.
Quando i nostri occhi si toccano
Il brano,
costruito intorno a una doppia invasione, è tratto da Le toucher, libro che
Derrida ha dedicato all’opera di Jean-Luc Nancy, il quale ne L’intruso,
racconta l’invasione, in lui, del cuore di un altro. La frase Quando i nostri
occhi si toccano, è giorno o è notte? è opera di uno scrittore anonimo che con
questa iscrizione ha invaso un muro di Parigi; la frase stessa poi, a sua
volta, invade Derrida, che a partire da questa decide “di fingere veramente di
inventare una storia vera”. Invasione della parola, dunque. Ma anche invasione
dello sguardo: “se due sguardi entrano in contatto ci si chiederà sempre se si
accarezzano o se si inferiscono un colpo, e quale sarebbe la differenza”.
L’invasione rimanda infatti sia alla guerra che all'ospitalità. Ospitalità che
ci chiama alla discrezione, al pudore: “dato che i tuoi occhi sono tanto
visibili quanto vedenti, potrei toccarli con le dita, con le labbra, o persino
con gli occhi, con le ciglia, con le palpebre – avvicinandomi a te, se osassi
avvicinarmi così a te. Se osassi un giorno”.
Delega – Mandato ottico
Invasione
dello sguardo è anche quella di Safaa Fathy, delegata da Derrida a filmare, in
sua assenza, i luoghi della sua infanzia. “Rappresentazione armata di una
videocamera” attraverso la quale lei vede con gli occhi di lui, e viceversa. Il
secondo brano è tratto da Tourner les mots, opera scritta da Derrida e Safaa
Fathy sul film girato da Safaa Fathy D’ailleurs, Derrida, presentato
in anteprima nazionale a Cosenza il 17 gennaio 2001.
"Mandato
ottico" per Safaa Fathy, ma anche per Trimani che, armato a sua volta di una
videocamera, invade la casa di Derrida, delegato a filmare lo sguardo di Safaa
Fathy attraverso la parola di Derrida, la memoria di Derrida nel racconto di
Safaa Fathy, a toccare uno sguardo, a “girare le parole”.
Jacques
Derrida, Quando i nostri occhi si toccano
Delega –
Mandato ottico
Il video è
stato girato nel giugno del 2000 nell’abitazione privata di Jacques Derrida,
fuori Parigi. I due momenti del filmato corrispondono alla lettura di due
brani; il filo conduttore è il tema dell’invasione.
Un video di
Antonio Trimani
A cura di
Francesco Garritano e Marina Machì
Traduzioni
di Marina Machì e Francesco Garritano
Montaggio
non lineare: Pino Perri
Post-produzione:
Punto Rosso – Cosenza
- - - - -
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D’ALTRA
PARTE, DERRIDA
Ciò che da tempo mi viene incontro, il nome della
scrittura, della decostruzione, del fallogocentrismo, ecc., non può non
provenire dallo strano riferimento a un'altra parte, a un altrove. L’infanzia,
l’al di là del Mediterraneo, la cultura francese, l’Europa, insomma. Si tratta
di pensare a partire da questo passaggio del limite. L’altrove, anche quando è
molto vicino, è sempre l’al di là di un limite. Ma in sé, si ha l’altrove nel
cuore. Nel corpo. Ed è questo che significa l’altrove. L’altra parte, qui. Se
l’altrove fosse altrove non sarebbe un altrove.
La scrittura è finita. La scrittura è finita. Ciò vuol dire
che, in ogni modo, nel momento in cui c’è iscrizione, c’è necessariamente
selezione e di conseguenza cancellazione, censura, esclusione; e qualunque cosa
io dica adesso della scrittura, di questo argomento – come diceva lei, della
scrittura – che mi ha occupato in modo privilegiato tutta la vita se così si
può dire, in ogni caso da quando scrivo, è la questione della scrittura che
lavora ciò che io scrivo. Qualunque cosa io dica qui adesso in un tempo così
breve e in questo scenario un po’ strano e artificiale, sarà selettiva, finita
e dunque segnata tanto dall’esclusione, dal silenzio, dal non-detto quanto da
ciò che dirò.
Lei in
questo momento sta scrivendo, cioè iscrivendo delle immagini che poi verranno
come si suol dire montate, “editate”, come si dice in questo paese,
selezionate, tagliate, incollate. Dunque, in modo molto artificiale, stiamo
preparando un testo che lei scriverà
e firmerà e io sono una sorta di materiale per la sua scrittura. Allora, come
materiale per la scrittura di questo film, il materiale deve parlare un po’
della scrittura, e della biografia.
In un contesto molto preciso ho detto che scrivevo per
ricercare un’identità. Mi sono sempre interessato a ciò che rende impossibile
l’identità, alla perdita dell’identità. E quando in Circonfessione e nel
Monolinguismo dell’altro ho parlato di un’autobiografia impossibile, nel
senso classico del termine, è perché l’autobiografia nel senso classico del
termine implica almeno che l’io
sappia chi è, si identifichi prima di scrivere o supponga una certa identità.
La possibilità di dire io in una
determinata lingua è, in effetti, legata alla possibilità di scrivere in
generale.
Ci sono eventi che consistono nel dire io, dire me, ma ciò non
significa che l’io come tale esista o che venga mai percepito come presente
qui. Chi ha mai incontrato un io? Io no. Il fantasma dell’identità di cui
parlava prima nasce da questa inesistenza dell’io. Se l’io esistesse non lo si
cercherebbe, non lo si scriverebbe. Se si scrivono autobiografie è perché si è
mossi dal desiderio e il fantasma di questo incontro con un io che, finalmente,
sia ciò che è.
Se qualcuno riuscisse, se io riuscissi, a identificare
questa identità in modo certo, naturalmente non scriverei più, non segnerei
più, non traccerei più e in qualche modo non vivrei più. Non vivrei più.
L’impazienza dei pesci, penso alla pazienza e
all'impazienza di questi pesci. Non solo sono stati fermati, imprigionati,
messi sotto vetro, ma sono della stessa specie. Io mi sento un pesce, qui,
costretto a comparire davanti al vetro, dietro al vetro, davanti a uno sguardo.
Mi fanno aspettare il tempo, il tempo, il tempo necessario, il tempo
necessario. E spesso mi chiedo: qual è la loro esperienza del tempo? Talvolta
la immagino infernale, un’immagine dell’inferno. Ogni volta che mi trovo di
fronte a un animale che mi guarda, una delle prime domande che mi pongo circa
la prossimità e l’infinita distanza che ci separa, è il tempo. Viviamo nello
stesso istante e tuttavia essi hanno un’esperienza del tempo assolutamente
intraducibile nella mia. E in più, sono come me, sottomessi pazientemente
impazientemente alla volontà dei padroni.
Vorrei sottolineare prima di tutto lo stupore di trovarmi
qui, in questo luogo che lei ha scelto, che è un vecchio museo delle colonie,
molto bello, e che mi ricorda forse che sono una specie di prodotto coloniale,
o post-coloniale, se preferisce.
Qualunque cosa io dica o qualunque cosa mi accada, appartengo ad una certa
storia delle colonie francesi. In qualche modo, in tutto ciò che faccio, che
scrivo, cerco di pensare una certa affinità di sincronia con il
post-colonialismo.
Sono cresciuto in un Paese, l’Algeria, nel quale bisognava
imparare ad abituarsi – ma non ci si abitua a niente – ad abituarsi al fatto
che tutti i luoghi, e in particolare i luoghi divini, i luoghi di culto, per
via della storia coloniale e pre-coloniale recente, fossero in qualche modo
appropriati, espropriati, riappropriati, sconsacrati, riassegnati. E così, ad
esempio, la grande sinagoga dove mio padre mi portava nei giorni di festa con
mio fratello era una ex moschea che conservava tutte le caratteristiche di una
moschea, divenuta sinagoga e che poi, dopo la decolonizzazione e l’indipendenza,
è tornata ad essere una moschea. Luogo di passaggio, temporalità provvisoria,
luogo dismesso, defunto, in qualche modo, con quel sapore di rovina precaria,
che non è male per un luogo divino; quasi i luoghi fossero in prestito. Come
disse Dio agli ebrei: questa non è la
vostra terra, questa è la mia terra, questo luogo vi è dato in prestito. Le
sinagoghe, le moschee, le chiese, volta per volta, con la violenza
dell’espropriazione che vi lascio immaginare, si prestavano, si ritiravano e
dunque si lasciavano abitare dalla memoria di un’altra religione, e di un culto
praticato negli stessi luoghi, i quali rimangono impassibili come luoghi ma
hanno visto passare naturalmente, e sentito tante preghiere in tante lingue,
sempre al dio uno, unico.
Ora, io mi trovo – e probabilmente non sono l’unico – in
questa situazione di emigrato o immigrante, marrano
clandestino, invisibile, senza documenti, che da questa situazione, che non è
neanche una situazione, che non è un luogo che è un non-luogo, da questo sito
senza luogo attraversa, e non senza amore, dei luoghi come questi.
-
Lei si identifica da molti anni ormai alla figura di
Marrano, ebreo spagnolo del secolo XIV che continua a praticare la sua religione
segretamente per sfuggire alla persecuzione, dopo essersi convertito al
cristianesimo.
Non conosco in modo per così dire obiettivo e scientifico
la mia filiazione e le origini della mia famiglia. Se mi sono innamorato di
questa parola che è diventata una sorta di ossessione e che ritorna in tutti i
miei testi, nella maggior parte dei miei testi degli ultimi anni, è perché essa
rimanda alle mie presunte origini giudeo-spagnole, ma anche perché dice
qualcosa di una cultura del segreto.
E
naturalmente la questione del segreto mi ha sempre molto interessato,
indipendentemente da quella del mio ebraismo, e non solo in relazione
all’inconscio, alla dimensione politica – giacché il segreto è ciò che resiste
alla politica, alla politicizzazione, alla cittadinanza, alla trasparenza, alla
fenomenalità. Laddove si voglia distruggere il segreto, la custodia del segreto,
c’è una minaccia di totalitarismo. Il totalitarismo è il segreto distrutto.
Ammetterai. Confesserai. Dirai ciò che hai dentro. Dunque, la missione segreta,
discreta, del marrano è insegnare il segreto che il segreto deve essere
conservato, deve essere rispettato, che il segreto deve essere rispettato.
Cos’è un segreto assoluto? Questa domanda mi ha
ossessionato tanto quanto quella delle mie presunte origini giudeo-spagnole. Si
sono incrociate, queste due ossessioni, nella figura del marrano. Poco a poco ho cominciato a identificarmi con qualcuno che
porta un segreto più grande di lui e al quale non ha neanche accesso. Come se
fossi un marrano di marrano, cioè un marrano secolare, un marrano
che abbia perso finanche l’origine ebrea e spagnola del suo marranesimo. Una
sorta di marrano universale.
ECOLE NORMALE SUPERIEURE, IN SOTTOFONDO LILI LABHASSI
Ecco, ho passato trent’anni della mia vita qui. Tra gli
anni di studio e quelli d’insegnamento, trent’anni. Qui. In questa casa. Ho
insegnato in quell’aula, lì dietro, per vent’anni. L’aula, lì dietro. L’aula
che fa angolo. Quell’aula, prima di insegnare a boulevard Raspail, ho insegnato
lì, in quell’aula. Ogni mercoledì alle cinque stessa cosa. Insegno da circa
trent’anni ogni mercoledì alle cinque.
«Aprirò la prima seduta pronunciando, senza contesto e
senza frase: perdono. Una sola
parola, perdono.
Un perdono deve essere nominato e anche ascoltato, udibile,
visibile, fenomenico in una parola, o deve invece essere segreto, silenzioso,
muto, taciuto, indicibile, invisibile, solitario? In altre parole, ci deve
essere o meno una teatralità, una messa in scena, persino una possibile
oscenità della scena del perdono? Il perdono deve presentarsi o invece ritrarsi?
Published on July 05, 2017
https://www.facebook.com/nesmusicband
Ahlam, nesmusicband song , taken from the upcoming Album, out fall 2017,
recorded at the mythical La Buissonne studio (France).
Camera by Alex Baker
Vocals & Electric Cello : Nesrine Belmokh
Drums & Percussions : David Gadea
Cello & Samplers : Matthieu Saglio
Andiamo a vedere al teatro, ci siamo; andiamo a vedere e
sentire.
Atto I, scena 1: dei personaggi, quattro uomini. Sono tutti
in un modo o in un altro uomini di confessione cristiana, e protestanti. I
quattro personaggi presenti, Hegel, Mandela, Clinton e Tutu, sanno tutti
qualcosa del perdono, l’amnistia, lo scongiuro, il pentimento, la
riconciliazione, e li ascolteremo testimoniare. Ma il sipario non è ancora aperto.
Si sente una voce fuori campo prima di ricominciare, in tedesco, naturalmente.
Prendo dapprima Hegel alla lettera.
La parola della riconciliazione, Das Wort der Versonung, non la parola “riconciliazione”, ma la
parola di riconciliazione, cioè la
parola della riconciliazione, la
parola attraverso la quale si avvia
la riconciliazione, si offre la
riconciliazione, tendendo la mano per primi. Dunque, la parola della
riconciliazione è l’atto, lo speech act
attraverso cui, con una parola, parlando, con un termine che è una parola, si
dà inizio alla riconciliazione, si offre la riconciliazione rivolgendosi
all’altro. Ciò significa se non altro che, prima di questa parola, c’era la
guerra e la sofferenza e il trauma, la ferita. Si dirà allora, secondo il buon senso,
il più irrefutabile buon senso, che solo un vivente o una vivente viene ferito,
può ricevere o sentire una ferita, anche se soffre di una ferita mortale. Una
ferita che nel futuro porterà fatalmente alla morte. Dunque lesione, colpo,
piaga, trauma, sfregio, taglio, sbucciatura, scalfittura, mutilazione,
incisione, escissione, circoncisione; qualsiasi ferita immaginabile che
colpisce un tessuto vivente lascia, almeno sul momento, una cicatrice. E anche
se la ferita è una figura biologica per parlare di un male o di una sofferenza
psicologica, morale o spirituale, come si dice, fantasmatica, ebbene il perdono
e la riconciliazione hanno senso solo laddove la ferita ha lasciato o ha potuto
lasciare un ricordo, una traccia, quindi una cicatrice da guarire o alleviare,
da curare.
Parlare sarebbe cominciare a riconciliarsi. Anche se, e
questo Hegel non lo ignorava, anche se si sta dichiarando l’odio o la guerra,
se ci si sta ingiuriando, insultando o ferendo, dal momento che si parla, che
ci si parla, è in atto un processo di riconciliazione. Allora come ricominciare
e parlare a tutti insieme, singolarmente e universalmente? Oltretutto, la
domanda “come rivolgersi a più persone?” a più di una singolarità, potrebbe disegnare
la croce del perdono, la croce stessa del perdono.
Allora, entra in scena Nelson Mandela».
JEAN-LUC NANCY:
Conosco Jacques dal 69, credo. Mi era venuta l’idea di
scrivere una sorta di saggetto. Ho mandato questo breve testo a Jacques, che
non conoscevo, e ho ricevuto una risposta che mi ha alquanto stupito. Innanzi
tutto ero stupefatto perché mostrava di aver letto i pochi articoli che avevo
scritto prima. Ero stupito, e toccato. Mi ricordo che in quella lettera c’era
questa frase “ho già letto i suoi testi”, e sapevo che ci saremmo incontrati un
giorno o l’altro. Ti lascio immaginare l’effetto che mi fece – avevo 29 anni –
ricevere la lettera di qualcuno che non era ancora quello che è oggi, ma che
comunque aveva già un certo peso.
C’era
questo, ma c’era anche il fatto che la lettera conteneva delle cose che non
saprei citare a memoria, anche se sono certo del contenuto, circa il piacere
che lui aveva provato nel trovare corrispondenze in un mondo o un’epoca in cui
si sentiva solo, che aveva dei lati oscuri, difficili; rimasi sorpreso dal
fatto che testimoniasse di un sentimento di solitudine. Non so, forse era un
momento particolare, so che ne ha avuti altri, ma certamente si trovava in uno
di quei momenti.
E poi lo
devo dire: dico che ero rimasto colpito, come altri, dai suoi testi, ma era
molto di più, era un’altra cosa rispetto a un effetto di testo notevole. I suoi
testi erano i primi ad insegnarmi, in fondo, che c’era una filosofia in atto.
Io ho avuto un trapianto di cuore e fino ad oggi non ho
scritto nulla in particolare su questo trapianto: l’insieme dei motivi del
trapianto, dell’immunità, l’auto-immunità, si potrebbe dire della protesi,
giacché il trapianto è una forma di protesi. In effetti, all’inizio era
soprattutto il trapianto. Il trapianto era una parola, una delle figure, dei
concetti principali di Derrida e tutto questo insieme corrisponde all’asse che
forse, in fondo, è l’asse principale del suo lavoro. Potremmo chiamarlo l’asse
dell’eterogeneo in generale, l’eterogeneo che sta nel rapporto da sé a sé. In
fondo tutto parte da qui, ne La voce e il
fenomeno, dall’eterogeneità nel cuore dell’omogeneità ideale del sé o del
soggetto.
Senza dubbio l’amicizia comporta sempre una parte di
silenzio, una parte che è veramente indipendente da ogni discorso e in
particolare forse dal discorso filosofico. Infatti è certo che io e Jacques non
abbiamo scambiato molte proposizioni filosofiche da trent’anni a questa parte,
veramente poche, pochissime. Succede, così, ogni tanto, ma è sempre una cosa
rapida. E’ evidente che in questo campo le cose avvengono attraverso i testi e
non attraverso la parola.
JACQUES DERRIDA:
Nel
seminario di quest’anno verrà analizzato il modo in cui nel mondo si impone la
visione cristiana. E ciò anche al di là delle culture cristiane, in quella
giapponese o indiana per esempio. Cercheremo di capire come vanno le cose in
culture nelle quali è presente, a volte in modo dominante, il cristianesimo. Il
mio linguaggio porta numerosi segni di cristianesimo, è segnato dal
cristianesimo. Cristiano significa anche ebreo e islamico, le tre tradizioni di
Abramo. Il mio discorso è segnato dalla complessa tradizione di Abramo. L’amico
Jean–Luc Nancy sta preparando un libro dal titolo “Decostruzione del
cristianesimo”, e per averne letto alcune pagine so che anch’egli pensa come me
che non possiamo sfuggire senza colpo ferire a tutto ciò che chiamiamo
cristianesimo. E’ in nome del cristianesimo che ci liberiamo dal cristianesimo.
La “morte di Dio”, ad esempio, è un tema cristiano, nulla è anzi più cristiano.
Ciò che succede oggi nel mondo, e che io chiamo “mondialatinizzazione”,
latinizzazione su scala mondiale, o se si vuole cristianizzazione su scala
mondiale, è forse una sorta di auto–decostruzione del cristianesimo.
Questi
scaffali non c’erano. C’era un tavolo ed era il mio unico luogo di lavoro. Oltre
a ciò che chiamo la mia bottega, cioè
testi miei in diverse copie, traduzioni, ecc., ci sono alcuni grandi corpus
filosofici. E’ così, è una stratificazione avvenuta in modo empirico. Per
esempio, lì c’è Hegel, lì Heidegger, lì Husserl. Il sublime fa riferimento a
ciò che è sotto, ad un tempo in alto e sotto. C’è un aspetto sottomarino,
sotterraneo, sub-celeste in questo luogo e allo stesso tempo è il più in alto
possibile. Non posso giustificare questa parola che mi sembrava comoda, l’ho
chiamato il mio sublime. E’ anche il luogo della sublimazione, del ritiro –
-
La scrittura…
della
scrittura; il luogo in cui mi ritiro innalzandomi, a poco prezzo. E’ un
nascondiglio. Un nascondiglio sublime.
Getto
dall’alto. Ecco, in fondo il sublime vuol dire anche questo, ciò che si rimuove
verso l’alto, si può rimuovere in basso, si può rimuovere in alto. Rimuovere
dall’alto e sublimazione spesso è un po’ la stessa cosa.
-
ma lei rimuove anche dal basso, perché
c’è quella casupola in giardino…
Rimuovo
da tutte le parti. Rimuovo dall’alto, dal basso, a destra, a sinistra, davanti
e dietro.
Queste
sono tutte carte.
-
Carte, cioè lettere o solo manoscritti?
- Troppo buio
Vede,
lavori di studenti anche, tesi, manoscritti. Non butto quasi nulla e siccome
dentro casa non c’è più posto…
Mal
d’archivio, di questo stiamo parlando. L’idea che ciò, in qualche modo, vive
già senza di me. In ogni caso vive già senza di me, appartiene all'esperienza
di questa accumulazione. Si tratta di accumulare cose che non hanno bisogno di
me. Ho bisogno di cose che non hanno bisogno di me. E’ anche questo l’amore, il
desiderio, una traccia che fa a meno di me, che si accumula distruggendosi. Le ceneri.
Laddove
l’iscrizione lascia un segno nel corpo, un segno che lavora nell'inconscio, che
non è solo una memoria, una rimembranza cosciente, laddove ciò che ho chiamato traccia conduce al di là della presenza
e della coscienza, in qualche modo essa ci rimanda a una sorta di
circoncisione.
In
quel luogo, che non è un luogo qualsiasi, che circonda il pene, che è anche un
luogo di desiderio, di erezione; è evidente che la scrittura, come scrittura
del corpo, trova lì il suo luogo, un evento nel quale il soggetto,
di-simmetricamente, riceve la legge. Prima ancora di parlare, prima ancora di
scegliere la propria appartenenza, è segnato dalla comunità e nonostante i moti
di diniego, di emancipazione, di liberazione che potrebbero esserci rispetto
alla comunità, questo segno permane. La mia ipotesi è che ci sono degli
equivalenti – ma su queste equivalenze ci sarebbero lunghi discorsi da fare –
in ogni cultura. Si potrebbe parlare di una sorta di circoncisione metaforica,
allegorica, tropica. Ma ovunque – per lo meno è ciò che cerco di sottolineare –
ovunque vi sia traccia, taglio, incisione, iscrizione, segno sul corpo,
troviamo una figura della circoncisione. Ciò significa anche che in tutti i
testi di cui parlo, cioè tutti i testi di segni, date, shibboleth, tracce,
iscrizioni, viene fatto un segno nel senso della circoncisione, e persino della
mia circoncisione.
«Accumulo, in soffitta,
nel mio “sublime”, documenti, iconografia, appunti, quelli dotti e quelli
ingenui, i racconti di sogni o i temi filosofici, la trascrizione applicata di
trattati enciclopedici, sociologici, storici, psicanalitici, dei quali non farò
mai nulla, sulle circoncisioni nel mondo, quella ebrea e quella araba e le
altre, e l’escissione, in vista della mia circoncisione, la circoncisione di
me».
Desidero
che si legga questo, che venga letto. Adesso, proseguo. Da una parte la parola
sublime significa ad un tempo ciò che si trova appunto al di sopra e vicino al
cielo, e il luogo di una sorta di sublimazione verso il quale salivo, dove salivano
tutti i miei sogni di scrittura e nel quale in effetti ho accumulato, per
decenni, del materiale, dei testi, dei documenti in vista del grande libro
sulla circoncisione di cui sapevo sin dall’inizio che non l’avrei mai scritto.
In ogni caso, che non sarebbe stato un testo soddisfacente. Per ragioni
contingenti, probabilmente, ma anche necessarie. Da una parte il progetto era
così illimitato che occorreva scrivere un libro più grande dello stesso
sublime, in 200 volumi; d’altra parte – e questa è la ragione non contingente –
perché era quasi un libro sull'ombelico dei miei sogni. Vale a dire un libro
che non solo avrebbe raggiunto la radice dell’inconscio, ma che l’avrebbe in
qualche modo esibito, rivoltato, in un moto di verità di cui sapevo dall'inizio
che, in ragione della circoncisione stessa – cioè di questo segno inconscio,
fatto per restare, più forte di qualsiasi presa di coscienza – non avrei mai
potuto, né dovuto portarlo alla luce. Sapevo dunque che si trattava di un
progetto destinato a fallire, del quale avrei lasciato solo una sorta di rovina
o di archivio disperso, o di segnale, un barlume che da lontano avrebbe
annunciato ciò che avrei potuto voler fare se,
ecc.
«Presto,
le memorie, prima che arrivi la cosa. Tralascio molte cose, perché mi affretto
molto. Accogli le mie confessioni, i miei ringraziamenti, mio Dio, per
innumerevoli cose, anche quando taccio. Ma non tralascerò nulla di ciò che in
me la mia anima concepisce sulla tua degna serva, colei che mi ha concepito per
farmi nascere e dalla sua carne alla luce del giorno, e dal suo cuore a quella
dell’eternità.
Dirò i doni, non i suoi, ma i tuoi,
in lei. E come in lui, frettolosamente, confesso mia madre, si confessa sempre
l’altro. Io mi confesso vuol dire confesso mia madre vuol dire ammetto di far
ammettere mia madre, la faccio parlare in me, davanti a me, ecco il perché di
tutte quelle domande seduto sul suo letto, come se sperassi dalla sua bocca la
rivelazione del peccato finalmente, senza credere che tutto possa essere
ricondotto a un peccato della madre portato in me, del quale ci si aspetterebbe
che io dicessi anche solo qualcosa, come fece Sant’Agostino del gusto furtivo
di Monica, mai, capito, mai il peccato resterà mitico quanto la mia
circoncisione, devo forse fare un disegno?»
Certamente
desideravo leggere questo testo così come l’ho scritto, e come nel tempo in cui
l’ho scritto, di fronte a questo quadro. Vicinissimo a questo quadro. “Il
funerale del Conte di Orgaz”: un titolo che lascia libero corso a ogni sorta di
sogni. Si dà il caso che nel 1989, la prima volta che sono venuto a Toledo, mia
madre era, direi, morente – tutti i mortali sono morenti, sono dei morenti – ma
mia madre era, nel senso comune del termine, morente, da anni, tre anni almeno.
Non riconosceva più i suoi, non riconosceva più neanche me, era persino
incapace di chiamarmi per nome, e come lei sa, il testo che ho scritto, Circonfessione, è una sorta di veglia,
di wake se vogliamo, di mia madre,
che accompagnava la sua morte.
Posso
aggiungere qualcosa, una frase?
Ciò
che vorrei sottolineare, che viene detto nel testo ma che vorrei sottolineare,
è che il giorno in cui ho scoperto questo quadro ricorreva l’anniversario del
giorno in cui, l’anno prima, esattamente alla stessa data, mia madre, se così
posso dire, era morta, senza morire. Lo racconto altrove: mi avevano chiamato,
io ero a Parigi, mi avevano fatto venire dicendomi “è finita” e quindi ho preso
l’aereo, preparato al funerale di mia madre. Poi, quando sono arrivato
all'ospedale, aveva ripreso conoscenza, era una sorta di resurrezione. Dunque,
in un certo modo, il giorno in cui ho scoperto questo quadro a Toledo era
l’anniversario della morte passata, della resurrezione di mia madre. Come se
tornassi da questo viaggio senza sapere, ed è proprio l’epoca di questo testo
intitolato Circonfessione, senza
sapere se la sua morte avrebbe interrotto una frase o una composizione di
questo testo.
Ogni
scrittura è costruita su delle resistenze. La scrittura esiste solo laddove c’è
resistenza, nel senso migliore e peggiore del termine; e laddove resistenza può
significare anche rimozione e repressione. Contengo, delimito, con il gesto
stesso che libera. Dunque, posso liberare forze di scrittura inaudite o
inedite, ma anche questa liberazione è possibile solo nel momento in cui,
trasgredendo e liberando, si costruiscono dighe, si costruiscono resistenze.
Strutture che proteggeranno la possibilità di trasgredire. Nel momento in cui,
in modo indecente, si fa saltare un limite, si fa saltare una barriera, ce n’è
un’altra che si sta costruendo. Leggere è decifrare questo. E’ decifrare nelle
scritture più inventive, negli eventi di scrittura più imprevedibili; leggere è
decifrare il calcolo di una protezione di sé. Non è necessariamente l’io che, coscientemente, sa cosa calcola.
L’inconscio calcola, c’è del calcolo. La scrittura calcola.
Io, devo dire, benché abbia scritto
e pubblicato molto, vengo sempre colto una specie di risata, o di pudore: «ma
perché scrivi, sembri supporre che quello che scrivi presenta qualche
interesse, lo porti all’editore, scrivi quindi pensi che le frasi che fai sono
interessanti». E questo gesto è assolutamente osceno, in un certo modo. Il
fatto di scrivere è ingiustificabile da questo punto di vista. Dunque, si
chiede scusa, come qualcuno che si spoglia. «Ecco, guardate, espongo». E
naturalmente si chiede subito scusa. Perdonatemi se cerco di rendermi
interessante. Dunque, dal momento che scrivo, mi scuso di fronte all'altro, e
anche al destinatario, alla destinataria, per l’impudicizia che c’è nello
scrivere. E’ una prima ragione per chiedere perdono.
Ma c’è un’altra ragione, strutturale
in qualche modo, fondamentale, che mi preoccupa sempre, mi dà sempre pensieri,
e che dipende dalla struttura del segno e del linguaggio. Non appena lascio una
traccia, cancello la singolarità del destinatario. Anche se lascio un biglietto
segreto, scritto in segreto, dicendo a qualcuno «Ecco, ti amo. Sei tu. Questa
parola è destinata a te unicamente», so che appena sarà scritto, e formulato in
una lingua, lingua traducibile, non appena la traccia sarà decifrabile, perderà
l’unicità del destinatario o della destinataria. Non mi rivolgo più a questa o
a quella persona. Mi rivolgo a chiunque. Dunque sono permanentemente nel
tradimento, la scrittura è un tradimento da questo punto di vista. Dato che
tradisco scrivendo, spergiuro scrivendo, ebbene non posso non star chiedendo
perdono per lo spergiuro che consiste nello scrivere, che consiste nel firmare.
E
lei scatta delle foto, mentre non si tratta di fotografia, ma di ipnosi. In
genere una seduta di foto normale dura due secondi, tre secondi; in questo caso
può durare un minuto. Interminabile. Non so che fare.
«La voce di uno dei cinque
maestri che Robert Castel ha appena evocato, […] in una
registrazione del 1906».
Se
una cosa accade, per esempio il dono, l’ospitalità pura, può accadere, e dunque
diventare possibile solo come
impossibile. Se c’è la decisione della responsabilità, essa deve superare la
prova dell’aporia e dell’indecidibile, vale a dire di quel momento che non è
solo una fase, ma un momento in un certo qual modo interminabile, deve superare
la prova di questa impossibilità di decidere o di disporre di una norma o di
una regola preliminare che permetta di decidere. In un certo senso occorre che,
al di là di qualsiasi «è necessario» identificabile, io non sappia dove andare,
cosa fare, cosa decidere, affinché una decisione, laddove sembra impossibile,
sia possibile. E dunque una responsabilità. Il che significa che se vi sono
decisione e responsabilità, esse devono attraversare il deserto assoluto.
Spesso, d’altra parte, è in questa impossibilità di decidersi, di trovare la
strada, che accade ad alcuni viaggiatori di perdersi e una delle grandi figure
dell’ospitalità nella cultura nomade, pre-islamica, è il racconto del
viaggiatore che, avendo smarrito il cammino, giunge vicino a delle tende in cui
il nomade ha il dovere, l’obbligo di accoglierlo per almeno tre giorni. Dunque
l’oasi, l’aporia, il non-cammino, l’ospitalità, tutto ciò forma una stessa
configurazione della cultura.
Io
ho sperimentato ciò che potrebbe essere stato, in un certo senso, l’opposto
dell’ospitalità da parte del Paese e della polizia che mi arrestavano, da parte
delle guardie carcerarie che minacciavano di picchiarmi, ecc. E’ l’opposto
dell’ospitalità e tuttavia, proprio in prigione, malgrado vi abbia soggiornato
per breve tempo, ho sperimentato per due volte un’ospitalità il cui ricordo è
per me prezioso, molto caro. Mi avevano incarcerato verso l’una di notte. Alle
quattro o alle cinque del mattino hanno buttato nella mia cella un altro
prigioniero. Un gitano, uno tzigano ungherese, con il quale è nata un’intensa
amicizia, per alcune ore. Mi ha iniziato a diverse cose, proponendosi di lavare
i muri, perché bisognava lavare i muri. Occorreva compiere un certo numero di
gesti per ubbidire alle guardie. Dunque, in breve, durante le poche ore passate
con quest’uomo in quella piccola prigione ho vissuto un’esperienza di amicizia
e ospitalità per come egli – che conosceva la prigione meglio di me – mi ha
ricevuto. Cominciavo a sognare che quella prigione sarebbe stata ospitale. E
poi, malgrado la violenza, la sofferenza, perché era comunque un momento
estremamente crudele, c’era qualcosa in me – questo l’ho già detto, non ricordo
dove – qualcosa in me che ripeteva questa scena, che viveva questa scena come
una ripetizione. Quasi l’avessi desiderata, anticipata, come se mi lasciassi
accogliere da qualcosa che, in fondo, aveva già avuto luogo, e che
ricominciavo. E questa ripetizione era come un desiderio legato all'ospitalità.
Venivo accolto in un luogo che era già preparato in me. In fondo, come se
avessi fatto di tutto per farmi imprigionare. D’altra parte, se ricostruiamo la
concatenazione degli eventi che mi ha condotto in quella prigione, tutto accade
come se avessi fatto di tutto, commesso tutte le imprudenze per farmi arrestare
e mettere in prigione. C’è dunque una ripetizione, in cui si mischiano torture,
sofferenze di cui non voglio parlare, ma anche della gioia. Gioia causata dalla
ripetizione. C’era qualcuno in me che diceva va bene, accade solo a me e in
fondo riconosco tutto questo. Ritrovo un certo habitat psichico, una certa
attesa. Ecco, attendevo tutto ciò, in un certo modo.
Ciò
che si potrebbe dire di una catastrofe costitutiva dell’ospitalità è che c’è
esperienza dell’ospitalità pura solo laddove sopraggiunge una certa catastrofe.
Bisogna pensare che l’ospitalità degna di questo nome è una prova catastrofica
contro la quale, sfortunatamente, anche le persone, le nazioni e le comunità
più ospitali si proteggono, e si proteggono attraverso la legge, il controllo
delle frontiere, attraverso il cosiddetto buon costume.
Ecco perché l’ospitalità pura non è
una categoria della politica, né del diritto, né del perdono. L’ospitalità
limitata può essere una categoria del diritto. Essa è stata iscritta nelle
convenzioni giuridiche internazionali, mentre l’ospitalità pura di cui si
parlava – l’ospitalità di catastrofe – è eterogenea alla politica e al diritto.
Non ci saranno politica o diritto aperti all’evento della catastrofe, per
definizione. Ma ciò non significa che si debba rinunciare al diritto e alla
politica. Occorre riorganizzare il diritto e la politica.
Ovunque
il noi sia una specie di comunità di
fusione in cui la responsabilità annega, vedo un pericolo. D’altra parte ho
contratto un’allergia a qualsiasi comunità di questo tipo. Invece considero un noi accettabile un noi fatto di interruzioni, nel quale coloro che dicono “noi” sanno
di essere delle singolarità che hanno tra loro un rapporto interrotto. Non solo
ciò non ci impedisce di dire “noi”, e di parlarci, di capirci, ma la condizione
per parlarci e capirci è che questa interruzione del rapporto permanga.
Immaginiamo la maggiore prossimità possibile tra due esseri: l’amore,
l’esperienza erotica, l’estasi estrema; la distanza non viene abolita, la
distanza infinita permane.
Il noi è come quando si tirano i dadi, o quando si getta la lenza,
quando un pescatore getta la lenza; forse c’è un noi dall’altra parte. Diciamo “noi”, è una promessa, una richiesta,
una speranza. Può essere anche un timore. Quando dico “noi” spero che non siamo
noi, che non siamo rinchiusi in questo noi. Dire “noi” è un gesto folle in
qualche modo, folle di speranza, di timore, di promessa. Ma certamente non è
una tranquilla certezza circa ciò che è,
questo noi. Non si è mai visto un noi in natura.
-
E’ il
sepolcro del gatto
-
Le tombe
dei gatti
-
Ci sono
delle pietre che non si vedono bene, comunque è [qui].
-
[Permesso].
-
E’ un
piatto algerino nel quale si facevano cuocere delle focacce, che adesso è esso
stesso sotterrato, come se la tomba fosse sotterrata.
-
Ma
Lucrezio è quello.
-
Sì, è
quello.
-
Questa
tomba è già vecchia. E’ una tomba dell’anno scorso. Lei lo ha conosciuto,
Lucrezio.
-
Sì.
-
Questo era
il grosso gatto nero.
-
Questo è il luogo di un fatto di
cronaca, che ha ispirato a Lorca
Le nozze di sangue. Ci fu una messa a
morte assolutamente simbolica, di una donna, e il suo ricordo funesto abita
ancora questo luogo.
-
Il lutto
infinito della donna è un’ossessione generale
-
Un’ossessione generale dei luoghi.
Ciò
che volevo suggerire parlando delle differenze sessuali (al plurale) è che ogni
volta c’è un intreccio di voci, una plurivocità, - questa parola ha diversi
significati, per l’appunto – una plurivocità che lavora o meno ogni voce. Ad
esempio qui, giacché parlavamo prima di diversi personaggi di donne, e Lorca, e
tutti quei fantasmi che abitano lo stesso luogo e che in qualche modo assumiamo
su di noi nel momento del lutto, nel momento del raccoglimento di cui lei
parlava prima; questi stessi fantasmi, che sono voci maschili e femminili,
diverse qualità di voce, diversi posti di voci femminili, devono in qualche
modo comporsi, incastrarsi o intrecciarsi tra loro. In un certo modo, non
appena si parla, non appena io parlo, non appena un io parla, questo stesso io
è costituito, è reso possibile nella sua identità di io da questo incastro di voci. Una voce abita l’altra, in qualche
modo, ossessiona l’altra.
E credo che la repressione, tutte le repressioni, in particolare la
repressione sessuale, la repressione sessuale della donna cominciano laddove si
cerca di far tacere una voce, di ridurre questa matassa o questo intreccio ad
una sola voce, ad una sorta di monologo. La molteplicità delle voci è anche in
partenza lo spazio aperto ai fantasmi, agli spettri. E anche al ritorno del
rimosso, di ciò che è escluso, precluso. Dunque io cercherò di pensare la
molteplicità delle voci, l’ossessione, la spettralità, e tutto ciò di cui
stiamo parlando, nel senso dell’assassinio, della repressione, delle differenze
sessuali, della donna, ecc.
Affinché
questo spazio democratico si apra occorre che in ciascuno, cittadino o
cittadina, questa molteplicità di voci venga, per quanto possibile, liberata.
Occorre che il cittadino o la cittadina trattino dentro di loro i problemi
delle voci, delle differenze sessuali, per poterli trattare adeguatamente
all’esterno. Perciò la politica passa anche attraverso una specie di
auto-analisi, una sorta di esperienza di sé. Se non si tratta bene il proprio
inconscio, se non si svolge continuamente un’auto-analisi, l’esercizio della
responsabilità politica ne risentirà.
Il
mio più tenace desiderio sarebbe di ricominciare. Di rivivere tutto. Il buono e
il cattivo. Anche ciò di cui so, nel presente, che fu cattivo. Le sofferenze, a
cose fatte, sono la possibilità di questa specie di sublimazione, di
trasfigurazione, quest’alchimia che fa sì che il ricordo di una sofferenza
diventi un buon ricordo. Avrei voglia di ripetere ed è questa l’ombra della
morte, la paura, l’angoscia, la tristezza della morte a venire, è la voglia di
ricominciare ancora, ancora e ancora le stesse cose, senza neanche doverne
inventare di nuove. Rivivere ciò che ho vissuto.
La
benedizione si ferma laddove – ed è questa la sfumatura o la precisazione che
volevo fare – qualcosa del passato, buona o cattiva, continua oggi e continuerà
domani a dare frutti o ad avere risultati negativi, quando il negativo continua
a proliferare, a vivere, e rischia di sopravvivermi; in questo caso no, non
voglio ricominciare.
Dunque,
quando il male passato ha un avvenire, allora non dico che maledico, ma non
benedico più. Non benedico più. Ciò che c’è di tragico nell’esistenza, non solo
nella mia, è che il significato di ciò che viviamo – e quando si ha una vita
lunga sono molte cose – il significato di ciò che abbiamo vissuto si determina
solo all’ultimo momento, cioè al momento della morte. Fino all’ultimo, può
accadere che ciò che ho vissuto, che ho creduto di vivere come una cosa bella,
buona, nobile e quindi [chiamando] questo desiderio di ritorno all’eterno, alla
fine della vita si riveli invece cattiva, che qualcosa mi apprenda che c’è
stata una menzogna, uno sbaglio, il seme di una catastrofe. E dunque all’ultimo
secondo apprendo qualcosa che corrompe o perverte il ricordo felice che
conservo.
“Avrei
voluto annunciare a G., mia madre, che da sempre non mi sente più, ciò che
bisogna sapere prima di morire, e cioè che non solo non conosco nessuno, non ho
incontrato nessuno, non so di nessuno nella storia dell’umanità, aspettate,
aspettate, nessuno che sia stato più felice di me. E fortunato, euforico. E’
vero a priori, ebbro di gioie
ininterrotte.
Ma
che se sono rimasto, io il contro-esempio di me stesso, anche perennemente
triste, defraudato, destituito, deluso, impaziente, geloso, disperato e che se
le due certezze non si escludono, allora ignoro come rischiare ancora la minima
frase senza lasciarla cadere a terra in silenzio; a terra il suo lessico, a
terra la sua grammatica e la sua geologica.
Come
dire altro se non l’interesse ad un tempo appassionato e disilluso per queste
cose: la lingua, la letteratura, la filosofia, altro se non l’impossibilità di
dire ancora, come faccio qui: io firmo”.
(Traduzione
di Marina Machì)
§
(incipit)
"Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità"
(p. 11; 11), il che non sembra né logicamente, né eticamente accettabile.
Ma intruso è chi non è stato invitato, chi si è imposto con la forza o l’astuzia, l’‘imbucato’ verso cui si prova anche un senso di fastidio perché crea disordine nel segreto dell’intimità. Accogliere uno straniero che non si lasci semplicemente ‘naturalizzare’ significa provarne l’intrusione, letteralmente: sulla propria pelle.
Nato a partire dalla sollecitazione di una rivista, che ha dedicato un numero al tema "La venuta dello straniero" ("Dédale", n. 9-10, 1999), L’intruso di Jean-Luc Nancy racconta e riflette filosoficamente su che cosa significhi vivere nel/col cuore di un altro, vivere grazie al dono della vita/della morte di un altro. È l’autore stesso, cui è stato trapiantato più di dieci anni fa il cuore di una donna, a presentarsi come una specie di mutante che la tecnologia medica ha permesso, un sopravvissuto al suo stesso sfacelo organico. Ed è l’autore stesso, con discrezione e tatto, a ricordare le esperienze di estraneità rispetto al proprio corpo che la malattia aveva innanzitutto sollecitato (quando, per esempio, il ‘batticuore’ diventava il ‘cuore in gola’ come un cibo indigesto) o ad indagare crudamente e mestamente sull'identità paradossalmente rivendicata dal rigetto ed attutita dalla ciclosporina, che abbassa le difese immunitarie e permette di sopportare l’estraneo, assicurando la vita, ma consentendo peraltro anche l’impazzimento di numerosi cicli vitali, il trionfo di infezioni endogene, la degenerazione del cancro, con l’ulteriore seguito di cure invasive e devastanti.
Qual è il prezzo della sopravvivenza? Ne valeva davvero la pena? Sono alcune domande che si pone Nancy. Ma poi soprattutto: chi è mai questo strano io intruso a se stesso?
n° 1 al curriculum d (Corporeità didattiche, tecnologie e inclusione)
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